Questa settimana si festeggiano le nozze di zaffiro – anche se le mie preferite rimangono le nozze del 48° anniversario, quelle di feldspato – di una delle conversazioni più celebri e significative del Novecento.
Il 23 marzo del 1977 cominciavano le registrazioni della prima di dodici interviste, da due ore l’una, fatte da David Frost a Richard Nixon, raccolte poi in quattro speciali televisivi (più uno di contenuti extra) suddivisi in altrettante grandi tematiche relative alla scoppiettante presidenza Nixon. L’apice di quello di scambio ha squarciato un velo che la politica americana non è mai più riuscita a rattoppare.
Quando Nixon, incalzato da Frost sui suoi comportamenti illeciti, sugli abusi di potere e sui tentativi di insabbiamento e ostruzione delle indagini sullo scandalo Watergate, ha pronunciato la celebre frase «Well, when the president does it, that means that it is not illegal» («Quando lo fa il presidente, significa che non è illegale»), i 45 milioni di spettatori sintonizzati su CBS devono aver sentito il rumore di vetri infranti: le porcellane buone della politica, quelle che facevano da bella vetrina per distrarre dalle brutture del retrobottega, erano state frantumate sotto i loro occhi.
È anche complicato mettersi nei panni di quegli spettatori, che nella prima serata di un mercoledì altrimenti qualsiasi hanno assistito a una chiara ammissione di colpe su quella serie di faccende che – per almeno due anni, ma con ripercussioni anche a lungo termine – avevano sconquassato la vita politica e sociale americana, portando per la prima volta alle dimissioni di un Presidente degli Stati Uniti. Per dire, quando in Italia abbiamo provato a fare una cosa simile, ne sono scaturite scene quasi altrettanto memorabili, ma per motivi decisamente diversi.
Tipo questa scena incredibile
O, ancora più calzante, questa
Altra scuola, altra classe. Scene perfette per ispirare una serie di meme, ma prive della gravitas necessaria per un resoconto drammatico. Invece la storia del faccia a faccia tra David Frost – descritto come un ambizioso intrattenitore alla ricerca dell’audience massima – e Richard Nixon, il Presidente del Vietnam, dei disastri umanitari in Cambogia, delle manifestazioni soffocate nel sangue e delle bugie impunite, sembra fatta apposta per essere trasformata in dramma, in tenzone all’ultima stoccata.
Nel 2006 la vicenda è stata trasformata dal commediografo Peter Morgan (The Crown) nello spettacolo teatrale Frost/Nixon, per poi essere adattata su grande schermo (due anni più tardi) dallo stesso sceneggiatore inglese, con la regia di Ron Howard. In entrambi i casi i protagonisti sono stati interpretati da Michael Sheen (nei panni di Frost) e da un enorme Frank Langella, che ha infuso nel ruolo di Nixon un’umanità su cui molti critici, analizzandone la figura politica, hanno sempre preferito sorvolare – o ancor peggio: infierire.
Oltre a raccontare un evento che ha fatto la storia della comunicazione politica e del rapporto fra potere e cittadino/spettatore, il film sembra suggerire anche qualcosa di più profondo, un cambio di paradigma, uno slittamento culturale epocale: l’inglese David Frost, il forestiero respinto da tutti e trattato come un alieno, un matto, un cialtrone o un pagliaccio a seconda dell’interlocutore statunitense del caso, è in realtà l’unico a rappresentare e incarnare lo stereotipo del sogno americano, del successo che ognuno si crea da sé e per sé, della positività a ogni costo anche di fronte alle peggiori avversità. «Quando la vita ti dà limoni, tu fa’ una limonata».
Insomma, come ci ricordano nel film quando ne descrivono l’atteggiamento nei confronti della vita, «David non contempla il fallimento». Esattamente come il migliore degli statunitensi purosangue – e il più fallato degli inglesi laureati a Cambridge, per cui le uniche reazioni accettabili sono pessimismo cinico e fastidio snob. Gli americani, d’altra parte, sono rappresentati da Nixon e dal suo consigliori – malati di potere e unicamente interessati a difendere i propri interessi, ma anche cowboy pronti al duello perché «solo uno di noi può rimanere in piedi» – e dai due accademici che hanno aiutato Frost a preparare le interviste – idealisti e moralizzatori altrettanto ciechi rispetto al punto di vista altrui.
È l’ennesima morte del sogno americano, condita dalla consapevolezza (post 11 settembre) che non c’è più speranza di dialogo fra due tifoserie che dalla seconda metà del XX secolo in poi sono ritornate ai bei vecchi tempi della Guerra civile e si sono sempre più incancrenite sulle rispettive, opposte posizioni.
In questa drammatizzazione degli eventi – trattata alla stregua di un documentario, con i mezzi busti dei protagonisti che guardano in camera dando il loro resoconto interiore degli eventi – c’è un intento educativo che applica un filtro di comodo alla Storia. Tarantino ha fatto la stessa cosa – cambiare il corso degli eventi storici per mettere in scena un racconto avvincente e soddisfacente – in Bastardi senza gloria. Ma lì erano il cinema e la sua sovversiva forza d’intrattenimento a vincere sulla Storia. In Frost/Nixon, invece, Ron Howard si schiera politicamente, individua una netta dicotomia buoni/cattivi (da cui non può che nascere tensione drammatica) e piega gli eventi a suo favore per avere l’amaro (ma non meno soddisfacente) lieto fine di cui la sua curva sentiva il bisogno.
Il film
Frost/Nixon. Il duello
Drammatico - USA 2008 - durata 122’
Titolo originale: Frost/Nixon
Regia: Ron Howard
Con Michael Sheen, Frank Langella, Sam Rockwell, Kevin Bacon, Rebecca Hall, Matthew Macfadyen
Al cinema: Uscita in Italia il 06/02/2009
in streaming: su Apple TV Google Play Movies Rakuten TV MUBI
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