Dov’erano i missili terra-aria del Eeeh, ma non si può più dire niente quando andava in onda Motherland dal 2017 al 2021? Erano, come al solito, a raccogliere ciliege scegliendo solo quelle che piacciono a loro. Oppure Motherland non l’hanno proprio vista perché le serie inglesi continuano a fare corsa a sé, finendo sempre con l’essere più difficilmente reperibili rispetto alle colleghe statunitensi. Il risultato è che da noi Motherland non è mai arrivato e ci siamo persi una delle sitcom più radicali create da una delle autrici più interessanti che Londra abbia soffiato all’Irlanda negli ultimi anni.

La stacanovista Sharon Horgan, che è pure attrice di razza (Il talento di Mr. C, Best Interest), è la creatrice di serie valide come Catastrophe, Divorce, Shining Vale e Bad Sisters. Ma con Motherland ha sfogato potenti energie primeve e ha partorito una geniale sitcom in cui anche le donne possono essere narcisiste e immature, pur essendo adorabili e fallaci. Non è un privilegio che spetta, sistematicamente, solo a personaggi maschili. E la buona notizia è che il personaggio più irresistibile di Motherland, l’egemone delle stronze Amanda Hughes/Sanderson, ha finalmente uno spin-off tutto suo (prodotto dagli stessi amici e dalle stesse amiche dell’originale) che peraltro potreste godervi appieno anche senza aver visto la serie da cui gemma. Potreste. Poi verreste mal giudicati (Eeeh, ma non si può più dire nulla).

Partiamo dal dire chi è l’eponima protagonista di Amandaland. Pensate a Regina George di Mean Girls, un’ape regina tanto vana quanto arrogante che esercita un carisma crudele su coetanee meno volitive e accentra la loro attenzione maltrattandole e creando un legame tossico e impari. Solo che Amanda ha 40 e passa anni e ha una figlia e un figlio che vanno alle medie, eppure si è comunque sentita in dovere di costruirsi un alveare di Alpha Mums operaie da bistrattare e con cui passare il tempo a guardare dall’altro al basso il resto delle mamme: quella è troppo brutta, guarda quella mal vestita, ma questa è matta o cosa a vivere la sua vita facendo scelte diverse dalle mie?, inaccettabile. Certo, è inglese, è bianca ed è benestante non per meriti propri. E in qualche modo – almeno in alcune legislazioni dell’ex Commonwealth – questi sono tutti fattori da tenere in considerazione per una diagnosi di parziale infermità mentale. Ma comunque non ci siamo proprio.

Ritroviamo Amanda, che è sempre interpretata alla perfezione da Lucy Punch (forse l’avete vista in Bad Teacher - Una cattiva maestra o in Into the Woods), dopo il divorzio e il fallimento della sua boutique Hygge Tygge. È stata costretta a trasferire armi e bagagli dal ricco sobborgo posh dove covava il suo privilegio di nascita alla cosa più simile, per quelli come lei, a un quartiere popolare: un’area riqualificata nei pressi di un carcere. Uno di quei posti che vengono ribattezzati con una sigla scema per sembrare ganzi. So-Ha, No-Ha, Ea-Ha, We-Ha: Ha-Ha. Certo, ha dovuto iscrivere i figli a una scuola pubblica (bleah), ma Amanda è pur sempre all’apice delle sue capacità narcisiste e manipolatorie: l’istinto le comanda di individuare il prima possibile la mamma più popolare e farsela amica per tornare a comandare in cima alla piramide alimentare della socialità di facciata.

Amanda si getta disperatamente in questa missione di fuga dalla solitudine nonostante un’amica mamma già ce l’abbia. È la povera Anne, che è sempre stata il suo misirizzi preferito sin dai tempi di Motherland. Ma a lei interessano solo rapporti da cui possa trarre un vantaggio concreto in termini di immagine, che le può fregare di una persona che la conosce intimamente, si fida di lei (povera Anne) e nonostante tutte le umiliazioni subite continua a volerle bene? Allora Amanda punta gli occhi su Della, chef e ristoratrice lesbica di grande successo (interpretata dall’indimenticabile Sister Michael di Derry Girls), che nei suoi locali serve un ossobuco da sturbo. Una donna pragmatica e di aperte vedute – è lei a consigliare alla figlia quindicenne il vino giusto da accompagnare al maiale, “meglio farle bere in casa che per strada” – che odia le cialtronerie, le moine e le chiacchiere vuote, ovvero tutte le caratteristiche che Amanda (convinta che il chimichurri si chiami cancaminì) ha coltivato per una vita intera.

Non andrà per niente bene. E il nuovo anno scolastico da mamma della protagonista si preannuncia ricco di disastri sociali, figure di palta ed esilaranti sofferenze cringe tanto quanto lo era Motherland. Dell’originale, Amandaland riprende la costruzione del gruppo dei personaggi principali (quattro mamme più un papà) a cui aggiunge la figura della madre di Amanda (la cattivissima Joanna Lumley di Absolutely Fabulous), ottimo memento del fatto che la mela non cade quasi mai lontano dall’albero. L’eccellente pilota, invece, è un grandioso promemoria delle intuizioni tragicomiche di Motherland e di quanto ci mancasse avere a che fare con protagoniste sgradevolmente realistiche, per questo ancor più meritevoli di tifo ed empatia.
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