Sulle testate d’oltreoceano si è diffusa la vulgata che vuole AppleTv+ casa principe della “prestige dad television”. Ovvero: opere seriali di alta qualità produttiva, con ottimi attori (tra cui almeno una star cinematografica), scrittura solida, temi adulti, diffusione a cadenza settimanale, ambizioni di racconto che si estendono su più stagioni, che piace tanto ai papà perché ha protagonisti magari tormentati e antieroici ma iper-competenti nelle proprie professionalità.

Non sfuggirà ai seriofili di lungo corso come questa, fino a solo qualche anno fa, sarebbe stata semplicemente la definizione di “buona tv”, ma le modalità imposte dallo streaming - binge watching, concept e scrittura algoritmici, formato miniserie, altissime probabilità di cancellazione dopo una sola stagione - rende in effetti anomala l’offerta della piattaforma della mela, le cui hit - Ted Lasso, Scissione, The Morning Show, Slow Horses, Silo - hanno tutte il privilegio raro di svilupparsi su più annate, aprendosi a un racconto corale, ampliando il proprio mondo, guadagnando spettatori appassionati e generando chiacchiericcio sulla lunga distanza.

La seconda stagione di Silo si conclude con la certezza non solo di una terza, ma anche di una quarta annata (per adattare l’intera trilogia letteraria di Hugh Howey), con un cliffhanger vecchia scuola e, come già la prima, con una sequenza che spalanca il mondo della serie, questa volta nel tempo (come si è arrivati alla post apocalisse che obbliga i resti dell’umanità a vivere sottoterra?) oltre che nello spazio (che è successo/sta succedendo negli altri silo? Chi governa il tutto?). Come spesso la tv (anche quella buona) di una volta, la narrazione ha un ritmo diseguale, in questi episodi reso evidente dalla bipartizione netta delle storyline: da una parte Juliette (una sempre impeccabile e carismatica Rebecca Ferguson) dispersa in un altro silo, disabitato fatta eccezione per un imperscrutabile uomo-bambino, Solo (perfettamente incarnato dalla new entry Steve Zahn); dall’altra le migliaia di abitanti della comunità sotterranea da cui Juliette è stata esiliata, in cui ribolle una rivolta innescata proprio dalla sua inaspettata sopravvivenza, ma che potrebbe, nonostante le sacrosante ragioni degli insorti e le intollerabili macchinazioni del machiavellico sindaco Bernard (Tim Robbins), portare all’annichilimento di tutti.

Silo diventa così due racconti che scorrono in parallelo, talvolta frustranti nell’alternanza, ma sempre capaci di rilanciarsi, episodio dopo episodio, e di dialogare tra loro per contrasto: quello di Juliette è un teso survival show (splendida la première di stagione, pressoché muta), in cui la determinazione e le abilità ingegneristiche dell’operaia dimostrano tutta la propria imprescindibilità; l’altro mescola i misteri del worldbuilding alle lotte politiche, con l’allegoria distopica a guardare in faccia il nostro presente («dai sempre la colpa all’ultimo livello» è il dogma che il credo para-religioso del silo affida ai propri leader). E convergono nell’invocazione finale di Juliette, «incazzatevi insieme, non l’uno con l’altro»: dad tv o no, il messaggio è urgente, e universale.
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