Fra le cose belle della vita adulta ci sono quei rari momenti in cui si ha l’illusione che non esistano le menate. Nel piccolo di questa rubrica sulle migliori serie inedite in Italia, quell’illusione si concretizza quando appare un tassativo imperativo che annulla ogni difficoltà di scelta: se i distributori italiani non si affannano ad accaparrarsi una serie diretta dal due volte candidato all’Oscar Stephen Frears (Rischiose abitudini, The Queen - La regina) e interpretata dal suo vecchio amico Steve Coogan (Philomena) e da quell’asso scespiriano di Harriet Walter (fuori dal teatro l’avete vista in Succession), noialtri quaggiù ci precipitiamo quasi a scatola chiusa a coprirlo.

Con discreta ironia della sorte, peraltro, il cuore pulsante di Brian and Maggie – sceneggiato vecchia scuola che si risolve in due episodi densi e scritti con la classica tripartizione che prevede fin dalla sceneggiatura le pause pubblicitarie – sta proprio nell’impossibile rapporto privato tra due figure pubbliche che cercano solamente qualcuno con cui scambiare opinioni sincere e cercare comprensione senza troppe menate, aspettative o maschere sociali e istituzionali. La situazione è piuttosto scabrosa – non siate maliziosi, si parla di etica – dal momento che le due persone in questione sono Margaret Thatcher (quella Margaret Thatcher) e Brian Walden. Politica (e che politica) e giornalista. Due categorie professionali che dovrebbero stare a debita distanza (personale) l’una dall’altra.

E allora, se la mettiamo così, con cose importanti come l’etica, ci conviene partire da lontano: la prima intervista politica andata in onda sulla TV britannica risale al 1958. E qui è dove contestualizziamo il fatto che gli inglesi non solo hanno inventato il linguaggio televisivo moderno, ma hanno anche inaugurato l’idea di TV di pubblica utilità. In questo senso, le interviste ai politici o comunque alle persone di potere e in vista hanno sempre rappresentato un tassello vitale della democrazia inglese. Fare le domande necessarie per mettere il potere di fronte alle proprie responsabilità: questo dovrebbe fare un giornalista politico specializzato in interviste. Tuttavia, il sapido Frears scombussola immediatamente i piani sin dai titoli di testa, quando presenta in maniera speculare i due protagonisti con uno stacco di montaggio in coerenza sullo stesso movimento (una mano che si accarezza i capelli) che farebbe piangere di gioia qualsiasi studente al secondo anno del DAMS.

È il 1989. Le dimissioni del cancelliere Nigel Lawson, che da tempo si oppone alle politiche economiche di Thatcher, mandano in crisi nera il terzo governo di fila guidato dalla Lady di ferro. L’opinione pubblica attribuisce le cause di questo momento di instabilità politica alla stessa prima ministra e alla sua testardaggine, alle sue manie di controllo e al suo dispotismo. L’intervistatore Brian Walden, per la prima volta nei 12 anni in cui si è trovato a intervistare Thatcher, le rivolge la domanda scomoda. Il resto è cronaca storica della politica inglese – Thatcher si dimette tra esultanze generali e non tornerà mai più al potere – ma a noi interessa più la storia che c’è dietro a questi due.

È il 1977. Walden è un membro del parlamento affiliato al governo laburista, ma in sereno disaccordo con le politiche del suo partito. Quando l’emittente London Weekend Television gli offre il ruolo di conduttore di una tribuna di divulgazione politica intitolata Weekend World, Brian coglie la palla al balzo per defilarsi da un mondo, quello dell’agone politico, che sente fatto soprattutto di frustrazione e impotenza. Walden è perfetto per questo tipo di televisione pedagogica che vuole mettersi al livello dello spettatore comune e innalzarlo, aiutandone la comprensione della realtà politica e sociale circostante. È perfetto perché viene da un contesto operaio di provincia – ha frequentato Oxford grazie a una borsa di studio, proprio come Thatcher – e non parla con quell’accendo posh della City londinese che manda automaticamente fuori di testa tutto il popolino dei non privilegiati.

La questione che lo riguarda, al di là del talento che dimostra davanti a una telecamera e dietro a una macchina da scrivere, è prettamente ontologica: un giornalista (perbene) dovrebbe dare fastidio al potere punzecchiandolo e, fondamentalmente, facendosi detestare; mentre il mestiere (e l’istinto) di un politico è quello di piacere a tutti, senza eccezioni – o almeno: questo era il concetto che circolava all’epoca, altri tempi. Apparentemente, i due insiemi non si sfiorano mai. Walden, però, è uno che la politica non l’ha mai abbracciata fino in fondo – avete mai sentito parlare di un parlamentare che molla la sua poltrona da un giorno all’altro volontariamente e senza tragedie correlate? – e quando viene confermato dai vertici di LWT, propone come prima ospite della trasmissione Margaret Thatcher, che nel 1977 era diventata leader dell’opposizione dopo aver brutalmente fatto silurare il suo predecessore.

Walden la definisce come acerba, ma è affascinato dalla sua risoluta ambizione e vorrebbe scavare più a fondo per far scoprire al pubblico le vere ragioni che la spingono a cercare con tanta convinzione un cambiamento politico così radicale. La intervista, ma non la morde. Le lascia spazio per esprimersi, fa il suo gioco, è morbido con lei perché spinto da una sincerità curiosità umana che gli fa guadagnare la reciprocità del fascino che lui stesso prova per lei. I produttori del programma, però, insistono acciocché Walden impari a essere più ficcante e lui è disposto a imparare. Allo stesso tempo non può evitare di continuare a essere intellettualmente attratto dalla figura di Thatcher, così opposta a lui eppure così simile: entrambi provengono da situazioni non privilegiate, si sentono outsider nonostante siano i migliori in quello che fanno, credono fortemente nella meritocrazia e nel duro lavoro. Proprio per quello scollo ontologico di cui sopra, tuttavia, è complicato pensare che un rapporto del genere, di stima reciproca e profonda comprensione, possa effettivamente esulare dal profilo pubblico dei due protagonisti. Noi sapevamo già com’è andata a finire – l’intervista dell’89 mette l’ultimo chiodo sulla bara dell’esperienza governativa di Thatcher e al bizzarro rapporto di amicizia con Walden – ma avere Stephen Frears che ci racconta com’è successo è uno di quei privilegi rari da raccogliere al volo.
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