Cosa si dice a una miniserie che inizia con un’inquadratura dal basso di Samuel L. Jackson che, pistola alla mano, fa una predica intimidatoria a una persona che sembra un ragazzino delle medie? Le si dice che è un gran bel flashforward per inaugurare una miniserie e metterci un’ottima curiosità, grazie mille.
Seguite il ragionamento sragionato: dal momento che Fight Night: The Million Dollar Heist (distribuita oltreoceano da Peacock) è tratta da una vicenda realmente accaduta, siamo tutti d’accordo che la domanda è una e una sola: com’è che nella vita vera si finisce in una situazione identica a una delle scene più iconiche di Pulp Fiction? E dove si firma per mettersi in lista d’attesa per l’experience?
Innanzitutto è necessario tornare a due settimane prima rispetto all’omaggio a Jules Winnfield, per conoscere la persona che assomiglia a un ragazzino delle medie. Egli è Kevin Hart, che senza una pistola puntata in faccia sarebbe Chicken Man, nato e cresciuto ad Atlanta. Qui è senza dubbio, a suo modesto avvisto, il migliore (sicuramente il più loquace) fra gli hustler, intraducibili maneggioni della cultura urbana USA (specialmente nera) che si guadagnano da vivere offrendo tutti i servigi informali di cui l’uomo della strada ha bisogno, dall’allibratore al bagarino fino al faccendiere e al maestro di cerimonie. Chicken Man però è un hustler ambizioso, fomentato da una partner (Taraji P. Henson) che condivide la sua visione di arricchirsi in fretta e in contanti facendo tutte quelle cose che stanno nel grigio fra legalità e illegalità. Ma con una certa propensione per quest’ultima.
Nel 1970 Atlanta è in fermento. Non è più (solo) la città del KKK, è anche il più vibrante centro urbano della cultura nera statunitense al di là di New York e si prepara ad accogliere l’indotto economico e i problemi di ordine pubblico portati dal ritorno di Muhammad Ali sul ring – dopo la squalifica per l’obiezione di coscienza riguardo alla Guerra del Vietnam. La Georgia è l’unico fra i 50 stati dell’Unione ad aver revocato la sospensione della licenza all’ex campione del mondo, subodorando l’affare nascosto grazie al non specchiatissimo intuito del giovane e arrivista senatore Johnson. Concorda, nel suo piccolo, anche Chicken Man.
Tanto che, quando il più importante boss del crimine nero newyorchese, Frank Moten (Samuel L. Jackson), programma una festa/riunione ad Atlanta con gli altri capi bastone dopo il match di Ali, Chicken fa andare la bocca a ruota libera finché non riesce a garantirsi la (costosa) organizzazione dell’evento. Tutto pur di farsi notare dal pesce grosso e scalare i ranghi della strada, diventando finalmente gangster – anche senza le odiate pistole o l’assenza di imponenza fisica – dopo anni di tentativi a vuoto. Per rendere ancora tutto più intricato: Chicken Man in realtà si chiama Gordon Williams, sulla carta ha una famiglia perfettamente regolare con moglie e figli, e ha promesso al prete della sua parrocchia che sarà lui a finanziare il nuovo tetto della chiesa.
L’ultima storia da intrecciare nel canestro di vimini dell’episodio pilota di Fight Night è quella di Don Cheadle, esperto detective della polizia di Atlanta che viene trattato come un corpo estraneo dai colleghi bianchi e come un traditore dai membri della sua stessa comunità, nonostante cerchi di fare del suo meglio pur partecipando a un gioco in cui le regole sono truccate e i bari sono gli arbitri. È a lui che viene affidato il compito di occuparsi della sicurezza di Ali: l’uomo più odiato dai neri di Atlanta che difende il nero più odiato degli Stati Uniti. Un cocktail frizzante, che promette di diventare esplosivo nel momento in cui due gangster scornati da Chicken Man assaltano a colpi di fucile a pompa l’esclusivo party che ha organizzato per Frank.
Tratto da un omonimo podcast – che ha romanzato e strutturato con drammaturgia una storia assurda realmente accaduta – Fight Night purtroppo non è un documentario su come finire per davvero in una scena di Pulp Fiction, ma questo non lo squalifica dall’essere una miniserie con un episodio pilota ai limiti dell’ideale. Con l’aiuto di un quantitativo spropositato di carisma davanti alla macchina da presa – ai già citati aggiungete anche Terrence Howard – lo showrunner esordiente Shaye Ogbonna (già fra gli sceneggiatori di The Penguin e The Chi) gestisce una marea di elementi diversi, sia per tono sia per stile, riuscendo a tenere coesa una trama intricata. Il risultato è di quelli divertenti, un’avvincente storia di gangster che ha il giusto equilibrio tra l’energico macchiettismo del cinema exploitation e il rispetto per l’humus storico e culturale entro cui la vicenda si muove.
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