Attenzione che il 2025 potrebbe essere l’anno della svolta per il dramma medicale. Come Yorgos Lanthimos, emerso nel 2009 dalle ceneri del teatro sperimentale di un paese sull’orlo della bancarotta sociale ed economica, allo stesso modo le serie tv ad ambientazione ospedaliera di qualità hanno dovuto aspettare che il capitalismo tentasse di uccidere anche il sistema sanitario (oltre alla Grecia) prima di fare capolino. D’altronde, dopo millenni di giusti (e banali) peana, la figura del professionista della sanità in ogni sua forma è al minimo storico del romanticismo percepito, da una parte e dall’altra della barricata. Dal loro punto di vista è un lavoro che non fa altro che dare e dare e dare: incubi, ulcere e tendenze suicide. L’unico modo per andare avanti, ci suggerisce l’episodio pilota di The Pitt, è un corretto equilibrio tra cinismo, sale in zucca e consapevolezza che, ahiloro, qualcuno dovrà pur farlo questo mestiere.
The Pitt è anche il nomignolo che il personale ivi tumulato ha dato al pronto soccorso dove è ambientata la nostra storia (il cui nome di battesimo sarebbe Pittsburgh Trauma Medical Hospital). Ed è il primo di molti indizi che suggeriscono come questa serie – creata da un veterano di E.R. - Medici in prima linea e, a sorpresa, anche di JAG - Avvocati in divisa – punti (e riesca) a essere dritta come un fuso, seria ma non seriosa, realistica ma costruita con sensibilità drammaturgica. Prodotta e trasmessa da HBO – quindi con discrete possibilità di arrivare anche da noi – The Pitt si spoglia di ogni orpello retorico per concentrarsi sulle cose serie: rendere interessante e avvincente una serie che racconta in tempo reale un turno di 15 ore in pronto soccorso, senza ricorrere a ricatti e senza abusare degli stereotipi di genere. Il pilota, poi, è grafico senza essere gratuito: quando deve mostrare sangue, ossa, budella e quant’altro non si tira indietro, ma nemmeno indugia con perversione sul dettaglio esplicito. Vuole rendere chiaro che la posta in gioco è una questione di vita e di morte, ma non fa del voyeurismo un vanto, un motivo di interesse o, appunto, un ricatto.
The Pitt ci mette un minuto di montaggio su immagini del panorama d’acciaio di Pittsbugh per entrare in reparto e, presumibilmente (ma chissà cosa riserba il futuro), non uscirne mai più. C’è una canzone in colonna sonora, è vero, che potrebbe far scambiare il tono non dico per sbarazzino e divertente – come divertente lo intendono i quarantenni – ma quantomeno con un’idea spettacolare di drammaturgia. Ma è solo la canzone che sta ascoltando in cuffia il protagonista, il dottor Robby, che dentro a un paio di pantaloni lunghi con i tasconi laterali da operaio edile si appropinqua a iniziare il turno di giorno nel pronto soccorso in cui è il medico responsabile. Quando si entra in reparto insieme a lui, tuttavia, la musica svanisce e la colonna sonora è solo quella dei rumori diegetici dell’ospedale e dei dialoghi spieghini (comunque ben scritti) che servono per introdurre situazioni e personaggi.
C’è una caposala che la sa lunga, è consapevole che oggi sia il giorno più duro dell’anno per il dottor Robby e con mezzo occhio tiene sotto controllo anche l’altra dottoressa, in bagno a vomitare di nascosto: ha scoperto da poco di essere incinta e non ci tiene a farlo sapere a tutti prima di avere la certezza che la gravidanza sia in regola. Ci sono sia i tirocinanti – una ragazza entusiasta e preparata, forse troppo ingenua – sia gli ambiziosi studenti: la talentuosa stronzetta, il ragazzo di campagna e la figlia di mammà enfant prodige. Ma soprattutto c’è lui, il dottore capo, che da quattro anni a questa parte si porta sotto le unghie e nel cuore il senso di colpa per la morte, causa COVID, del suo mentore e predecessore, il dottor Adamson. Di solito, nel giorno dell’anniversario Robby evita di lavorare per non rischiare di fare danni o di viversela troppo male. Quest’anno però bisogna.
E come in ogni altro turno, non bisogna solo trattare con pazienti, colleghi ed emergenze. Robby è anche la figura professionale che si interfaccia con i temibili colleghi dell’amministrazione, quei medici che sono passati al lato oscuro della forza e ora gestiscono gli ospedali come se fossero dei fast food, con un’idea del profitto che scarsamente si confà all’ontologia di un nosocomio. A Robby viene contestata la percentuale di pazienti soddisfatti del servizio (e che quindi potrebbero consigliare l’ospedale ad amici e colleghi). Non quella dei pazienti curati o salvati. Quella dei clienti soddisfatti. La realtà è che capitalismo e sistema sanitario pubblico non vanno per niente d’accordo. E The Pitt inserisce quest’evidenza come un dato di fatto odioso, una patologia che però non può interferire con la prassi quotidiana di un pronto soccorso.
Fra i pazienti che entrano nella giornata di Robby e nella narrazione della serie, c’è tutto l’armamentario del genere – l’emergenza traumatica, l’alcolizzato cronico, il caso senza cause evidenti, il caso da servizi sociali, quello da polizia: ogni tipo di evenienza che abbiamo imparato a riconoscere in decenni di abuso di drammi medicali – ma ci sono anche dettagli non sempre calcolati altrove. Ogni mattina, più o meno alle sette e mezza, puntualmente arrivano i morti viventi: i pazienti delle case di riposo che, quando gli infermieri fanno il giro del mattino, vengono trovati in condizioni da ricovero. Nel pronto soccorso del dottor Robby, inoltre, quando un paziente non sopravvive, lo staff che ne dichiara il decesso è tenuto a rispettare un momento di silenzio per commemorarlo. E la giornata è appena iniziata. L’episodio pilota – che in dirittura d’arrivo si concede la mini-deviazione e il minuscolo espediente retorico di un breve flashback traumatico dei tempi del COVID – finisce, e la consapevolezza che nella serie siano ancora solo le OTTO DEL MATTINO è un macigno che rende The Pitt un dramma medicale finalmente diverso nella struttura e nella portata drammatica. E Noah Wyle, che veste i panni del dottor Robby dopo 15 anni di pausa da quelli del dottor Carter di E.R., ha fatto il finto medico in televisione per talmente tanto di quel tempo che la serie assomiglia per davvero a un crudo documentario sui dottori esteticamente più appaganti di sempre.
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