I titoli di testa di American Psycho si aprono su gocce di sangue piombanti su un fondo bianco che ha la matericità e la porosità dei biglietti da visita intorno alla cui rilevanza estetica si sfideranno i giovanissimi vice presidenti della Pierce & Pierce in una delle sequenze più proverbiali del film. Appena dopo viene introdotta la casa di Patrick Bateman, messa in scena come fosse la visita a un museo. Un lento carrello ne svela le pareti bianche e il lucidissimo parquet a pavimento. In un angolo troneggia la magnifica seduta Hill House 1, che Charles Rennie Mackintosh (tra i precursori dell’Art Nouveau nel Regno Unito) aveva disegnato per l’omonima residenza da lui stesso progettata a Helensburgh, Scozia.

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Ispirata al grafismo astratto del design giapponese, la sedia è oggi rieditata da Cassina che, in modo molto pertinente, ne parla con giustificato orgoglio come di una “sinfonia verticale” connotata da uno schienale incongruamente, magnificamente alto, definito da una successione di “linee verticali contrastate da un reticolo di ritti e pioli con sezioni al limite della resistenza materica”. Un capolavoro da rimirare come un’opera d’arte, appunto, ma su cui difficilmente qualcuno oserebbe anche solo immaginare di poter riposare le terga.

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Puntato in direzione della finestra, il telescopio con cui si immagina il protagonista titillare le proprie pulsioni scopiche, spiando chi mai nel vicinato potrebbe avere arredi più à la page dei suoi; a destra, si riconoscono le celebri Barcelona Chair che Mies van der Rohe, in collaborazione con Lily Reich, sviluppò per il padiglione tedesco (da lui stesso firmato) per l’Esposizione Universale di Barcellona del 1929. Prodotta in acciaio, con un cuscino composto da 40 riquadri di identica dimensione, tagliati e cuciti a mano, è l’epitome del design industriale e del modernismo, plastica sintesi del motto “less is more” tanto amato da van der Rohe, che cedette i diritti – così come quelli dell’omonimo sgabello – all’azienda Knoll.

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Alle spalle della coppia di poltrone, un altoparlante che parrebbe un costosissimo Harman Kardon, e di fronte un pezzo di design tutt’altro che banale e che non ricordo di aver mai visto utilizzato altrove come oggetto scenico: il tavolino Alanda ‘18, disegnato da Paolo Piva per B&B Italia, segno grafico-stilistico di palese audacia pensato quale contraltare domestico di virtuosistiche architetture. Si veda il suo reticolato, che funge al contempo da piedistallo e da supporto per il piano, rammentando un gruppo di piramidi rovesciate; una struttura geodetica che rende il tavolo quasi una creazione misterica, catalizzatrice di energie positive. Non sarà così per Bateman.

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A parete, spicca uno dei 60 disegni iperrealisti della serie “Men in the Cities” di Robert Longo, pare ispirati all’artista da un fermo immagine tratto dal Soldato americano di Fassbinder. Sono ritratti di uomini e donne che indossano classici abiti da lavoro freezati in pose contorte e innaturali: metafora del dolore che affligge l’inconsapevole Bateman o di quello che lui vuole infliggere agli altri? Uno stacco porta alla camera da letto, ancora minimale e bianca (muri, piumone, vaso) in modo spettrale e soffocante.

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La cucina è il tempio dell’acciaio inox, materiale igienico per antonomasia e sulle cui superfici il broker si specchia, come farà poco dopo sul menù del ristorante “Espace”, concepito come l’elegante pulsantiera di un ascensore. Lo spersonalizzato yuppie vive sulla West 81st Street, all’undicesimo piano. Il collega che maggiormente invidia è Paul Allen, colui che sbandiera biglietti da visita di tale perfezione da mozzare il fiato ai sovrapponibili manager della Pierce & Pierce; un fortunato il cui alloggio occupa l’ultimo piano di un palazzo con vista diretta su Central Park. Tanto basta a Bateman per portarlo da sé e ucciderlo, non prima di essersi premurato di ricoprire il parquet con dei fogli di giornale e di aver steso provvidenziali teli (naturalmente bianchi) sui suoi preziosi elementi d’arredo: il design museale di cui si attornia non deve confrontarsi con l’orrore, con la lordura della morte.

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Il nichilismo ellisiano non emenda Paul Allen dal vuoto che invade i suoi antieroi. Ma questo vuoto non fa di lui un assassino, e la regista della trasposizione, Mary Harron, insieme ai suoi scenografi, ce lo comunicano attraverso il suo alloggio. Che non è un’algida galleria come quella del suo assassino, ma una specie di costosissimo rifugio, stravagante, eclettico, decorato, colorato, con arredi di pregio ma “utilizzabili”, come il grande cassettone in legno scuro sovrastato da cianfrusaglie tra cui si scorge perfino una macchinina rossa, a dire che il suo proprietario, a differenza di Bateman, ha mantenuto un legame con la propria infanzia.

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La disposizione del suo living rispecchia quella già descritta a proposito dell’appartamento di Patrick, ma accanto a un (anonimo) divano stavolta non campeggiano le Barcelona Chair ma due sedute che (orrore!) potrebbero anche provenire da un mercatino dell’usato di lusso per assecondare una perversa tendenza shabby chic. Quando Patrick fa sesso con l’amante nella camera di colui che ha già provveduto a smembrare, si nota come la piatta uniformità delle pareti di casa Allen sia interrotta da una serie di cornici di gesso; il letto è completato da cuscini ricamati e dal groviglio delle lenzuola sbuca anche il peluche di un micetto (ancora il legame con l’infanzia).

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In generale, quell’alcova trabocca di “cose”: uno specchio con delle volute rococò, un vaso riempito di elementi decorativi spiraliformi. La prostituta di cui Bateman si sbarazzerà lanciandole addosso una sega elettrica gli dice addirittura che quella casa è molto più carina della sua, suscitando la reazione sdegnata e incredula del ragazzo. Il design ancora una volta, l’ennesima, è raffigurato da Hollywood come complemento di un Male che, in questo caso, è tanto vuoto da sfociare in una spaventosa ottusità; la possibile configurazione di un abisso dell’anima a cui, con un’evidenza che non ammette fraintendimenti, gli autori contrappongono un ambiente in cui si ritrovano invece palesi tracce della persona che lo ha abitato, e che questa persona era un essere umano. Magari dal gusto discutibile, ma pur sempre un essere umano.

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Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina American Psycho

American Psycho

Thriller - USA 2000 - durata 102’

Titolo originale: American Psycho

Regia: Mary Harron

Con Reese Witherspoon, Christian Bale, Willem Dafoe, Jared Leto

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