Nome in codice

È quasi Natale a Londra, ogni strada scintilla di lucine e fiocchi, e Helen Webb, carismatica e impeccabile moglie del ministro della difesa inglese, fa di tutto per mantenere le apparenze del suo ruolo familiare e istituzionale. Dentro, però, è a pezzi: il suo amante è stato ucciso su una panchina di South Bank e lei non si dà pace. Anzi, è pronta a scatenare l’inferno per vendicarlo, perché Helen non è (solo) una moglie e una madre, non è nemmeno veramente Helen: è una Black Dove, un’agente sotto copertura, e per la vendetta è pronta a rischiare tutte le sue vite, quella “falsa” e quella vera.

Sei episodi di Keira Knightley sul piccolo schermo sono più che sufficienti per ricordarci quanto ci manca - troppo, da troppo tempo - su quello grande: irresistibile nei toni di commedia di cui questa spy story è fortemente innervata, efficace negli efferati combattimenti corpo a corpo, eternamente stilosa nei cappotti oversize con cui si muove nelle vie londinesi, la diva britannica esercita la sua consueta malìa sulla macchina da presa, qui affiancata con chimica esondante dal sempre magnifico Ben Whishaw, nei panni di malinconico sicario/fixer dal cuore ibernato.

Tra l’ambasciata cinese e quella americana, l’intrigo di cui sono causa & rimedio li vede seminare piombo e sangue per tutta Londra, in un registro felicemente a metà tra serio e faceto, pullulante di caratteristi di razza (su tutti, la pragmatica boss incarnata dalla grande Kathryn Hunter) e capace di innestare con disinvoltura i cliché dello spionaggio su una storia di amicizia, di amori spezzati, di seconde occasioni disperatamente mancate. Ogni tanto, su Netflix, una gioia.

La serie tv