Sudafricano di Johannesburg, dove nasce nel 1955, William Kentridge assiste in prima persona all’apartheid (e alla sua disgregazione: suo padre è stato un avvocato degli oppositori del regime) e, attraverso questa esperienza, ne veicola nella sua opera tensioni e ambiguità. Utilizzando cinema, video, disegno, scultura, animazione, stop motion, performance (ha alle spalle studi di mimo, opera anche in campo teatrale), trasforma uno dei fenomeni sociali e politici più controversi del XX secolo in una serie di potenti allegorie. Ricorrendo a una tecnica mista che è diventata marchio di fabbrica, l’artista fotografa i suoi disegni a carboncino e i suoi collage e ne documenta il graduale sviluppo, mostrando trasformazioni e cancellazioni di figure che si susseguono su fogli sempre più consumati.

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Self-Portrait as a Coffee-Pot

Proprio reiterando gli atti del creare un’immagine, cancellarla e inventarne una nuova, Kentridge vuole significare la facile rimozione delle ingiustizie sociali che l’uomo contemporaneo opera quasi istintivamente e l’ipocrisia insita nelle apparenze che mascherano realtà drammatiche e dolorose. Consapevole che la nostra concezione del mondo è anche il frutto del modo in cui decidiamo di guardarlo, fa largo uso di illusioni ottiche, creando un personalissimo cinema delle attrazioni (7 Fragments for Georges Méliès del 2003 omaggia, a suo modo, le invenzioni del francese), che incrocia - quasi a contrasto - spezzoni documentari e immagini iperreali. Ciò che non muta, al centro della sua opera, è la sua persona: l’artista è calato nel suo mondo, la sua autobiografia lo struttura, il suo corpo lo abita, le sue incertezze lo fanno vibrare. Anche quelle relative alla sua identità artistica: la sua poliedricità segna anche l’impossibilità di definirsi come essere creativo, una perplessità che riflette, nel macro, l’instabilità del mondo attuale.

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Self-Portrait as a Coffee-Pot

Self-Portrait as a Coffee-Pot è una serie in nove puntate girata durante la pandemia di COVID-19, un nuovo viaggio nel suo atelier-cervello in cui, esorcizzando l’isolamento forzato, l’artista immagina due versioni di se stesso dialogare tra loro e affrontare nodi filosofici come quello relativo alla natura della memoria e delle emozioni umane, riflettendo su come identità e racconti personali vengano plasmati dalle nostre mutevoli idee di storia e luogo. Come costruiamo i nostri ricordi? Cosa sostanzia il nostro io?

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Self-Portrait as a Coffee-Pot

La caffettiera del titolo, un elemento ricorrente nella sua opera, è un oggetto utilizzato costantemente nella sua quotidianità e che per questo assurge a paradossale sintesi della sua persona, un modo diverso di descrivere e rappresentare se stesso. Self-Portrait as a Coffee-Pot non è precisamente un documentario, né semplicemente una nuova autobiografia, è un intrecciarsi di storie, digressioni, siparietti che si materializzano e si disfano. Convinto che un artista possa imparare molto di più da un processo artistico nel suo divenire, piuttosto che da un obiettivo finale precostituito, Kentridge fa di questa serie l’ennesimo campione di arte in fieri, un nuovo concentrato di intelligenza, poesia, umorismo.

Autore

Luca Pacilio

Posseduto dalla diabolica Torino, vicedirettore della rivista cinematografica online Gli Spietati, per Film TV cura la sua malattia (la videomusica) e (dunque) la rubrica Videostar, dedicata agli autori e ai protagonisti del video musicale contemporaneo. Amando perdere, e non seguendo il calcio, coltiva le enciclopedie fallimentari di Peter Greenaway.