Nella serialità di oggi più si cerca di fare gli originali più si finisce, paradossalmente, per essere tradizionali, persino classici. Non è detto che sia un male, però. Si prenda il caso di Stucky, disorientante fin dal titolo (è un cognome di origine svizzera piuttosto conosciuto nel nostro nord est) e dal protagonista, l’ispettore di origini persiane Stucky (Battiston, agli antipodi dello sbirro tignoso di Il corpo, ora in sala), un bel tipo quale si può immaginare solo nei romanzi (quelli di Fulvio Ervas, nella fattispecie) ambientati in un Veneto dove anche il delitto dev’essere disciplinato e produttivo, per la precisione a Treviso, in fondo ancora quella di Signore & signori, soltanto più incattivita.
Qui Stucky, ben adattata in serie da Valerio Attanasio (anche regista, con qualche bel guizzo di messa in scena, come nell’incipit del primo episodio, forse il migliore) insieme a Matteo Visconti e Marco Pettenello, trova i suoi accenti più felici, sapida e perfida nel descrivere, dietro i soliti delitti da fiction, una varia umanità del nord est operoso da perfetta commedia (nera) all’italiana, tra colti filantropi un po’ spocchiosi mantenuti da mogli naïf ma tanto ricche (Trabacchi, guest star impagabile), avvocaticchi di provincia senza scrupoli nel mantenere i propri vizietti e viticoltori formichine con fratelli cicale dove è difficile capire chi sia il vero “mona ”, tutti benissimo schizzati (e con l’accento giusto!). In questo quadro, Stucky si muove sornione e felpato, con i suoi foglietti-appunti, fintamente ingenuo e insieme con genuini entusiasmi (per un quadro, una bottiglia di vino, un panorama), sempre sottovalutato dal colpevole di turno finché non è troppo tardi e da gattone pigro e indolente diventa pitone spietato pronto a papparselo.
Infatti, la serie, pur nutrita da tanti buoni precedenti cinematografici (e, peraltro, Stucky era già arrivato al cinema nel 2017 nel film Finché c’è Prosecco c’è speranza, già con Battiston nel ruolo eponimo, quasi una sorta di numero zero), ripiega nella formula tv più classica, perché il modello di detection è ancora quello di Colombo, con il prologo che mette in scena il delitto, rivelando l’assassino, e il resto dell’episodio che vede l’ispettore, tra divagazioni e filosofia spicciola, stringere sempre più il cappio attorno al collo del colpevole. Quest’ultimo ha sempre un alibi, costruito ad arte con fior di testimoni (ecco, qui si potrebbe provare a variare un pochino in futuro...), ma alla fine deve capitolare, perché così vuole la formula, inossidabile (da episodi di 60’, in palinsesto su Rai2 in combo con il The Bad Guy di Prime Video, un bel mix). Lì dentro stanno pure tutti gli altri addendi, da manuale e da giostrare a piacimento, ora prima ora dopo, ma sempre e comunque: i vice simpaticamente un passo indietro, la bella anatomopatologa (Bobul’ová, al solito deliziosa) davanti alla quale arrossire e forse chissà, l’oste vinaio filosofo e complice (Ribon, sornione) che suggerisce senza volere. Tutto stravisto, eppure funziona sempre. Qui particolarmente bene, come dimostrano gli ottimi ascolti. Perché Stucky, alla fine, è come Stucky: ti sta addosso finché non cedi.
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