Il Filmmaker Festival 2024, alla sua 36ª edizione, si è da poco concluso. Dal 16 al 24 novembre una serie di proiezioni ed eventi si è tenuta all’Arcobaleno Film Center, alla Cineteca Milano Arlecchino e alla Cineteca Milano MIC. Nella sezione del Concorso Internazionale, la giuria giovani ha deciso di premiare Averroès & Rosa Parks di Nicolas Philibert, il secondo capitolo di un trittico realizzato dal regista sui temi della salute mentale e della cura, comprendente Sur l’Adamant, vincitore dell’Orso d’oro alla Berlinale 2023, e La Machine à écrire et autres sources de tracas.
Una lente d’ingrandimento posta all’interno delle due unità dell’ospedale Esquirol di Parigi dà voce alle istanze dei pazienti, in dialogo individuale o collettivo con gli operatori della struttura.
A differenza di molti registi contemporanei, intenti a sfogare smanie egotiche, Philibert riesce a porsi al servizio del profilmico e non cade nella tentazione di piegarlo a un programma prestabilito. È così che il film assume una forma nell’istante stesso del suo farsi. Nasce dall’incontro, dalla relazione non gerarchica del regista con i soggetti, anche al di fuori delle riprese.
Con un rispettoso distacco, Philibert rivendica l’essenzialità di un tanto bistrattato cinema della parola. I protagonisti orientano le conversazioni, manifestano bisogni troppo a lungo disattesi e fanno emergere le multiformi fragilità dell’uomo. C’è chi teme per la propria privacy, chi reclama la centralità dell’esercizio religioso, chi racconta della propria storia con una donna sposata o del timore di non vivere mai più un nuovo amore.
Qualcuno mette in dubbio i progressi a seguito di una terapia ultradecennale o non capisce l’esigenza di modificare una dose di psicofarmaci che sembra assicurare un momentaneo benessere. Altri confessano i propri tentativi suicidari, il proprio senso di soffocamento, le allucinazioni olfattive, le visioni, la mancanza di affetto. Ma a stupire sono le frasi aforistiche e le battute fulminanti che denotano la levatura intellettuale di uomini e donne che scomodano Gesù Cristo o Nietzsche. «Camaleonte metapsichico» si definisce un singolare professore per una tendenza a impersonare quotidianamente i ruoli più disparati. «Socratico» è invece lo pseudo latin lover deciso a non lasciare tracce di sé costruendo una famiglia.
Pur brancolando nel buio dei loro differenti stati di depressione, schizofrenia o ipomania, i pazienti sembrano avere in comune l’esigenza di partecipare all’incedere gravoso della storia del mondo. Il contributo alla società pagando le tasse, la nobilitazione che deriva dal lavoro sono urgenze non inferiori al superamento dello squilibrio.
Gli asettici spazi dell’istituto sono visibili all’esterno attraverso le riprese aeree di un drone. Tra le mura si trova reclusa un’umanità che tenta di perimetrare un cerchio di labile serenità lontano dal reale. Il meccanismo di rifugio avviene attraverso i farmaci, quelli che David Foster Wallace ne Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta definisce «straordinari come sarebbe straordinario vivere, che so, su un altro pianeta caldo e comodo, fornito di cibo e acqua fresca: sarebbe straordinario, ma non sarebbe la cara vecchia Terra». I protagonisti del documentario finiscono però per rimanere invischiati pericolosamente nelle cose del mondo, in uno spasmodico sforzo per non esserne totalmente avulsi.
Allora c’è spazio anche per la megalomania, per coltivare ambizioni utopistiche di rinnovamento della società o per ricercare un contatto con la stessa nella lettura. Si va dall’osceno De Sade al piacere di odorare le pagine di un romanzo. C’è chi si circonda di libri pur non riuscendo mai a portarne a termine uno, mimando il percorso di guarigione. Arduo, incipiente, stentato. E nel contatto con il mondo, conservando una vitalità degna dei personaggi di Qualcuno volò sul nido del cuculo, quegli uomini si sono così scorticati e ustionati (alcuni anche fisicamente), che lo spettatore ha quasi l’impressione di essere materia inerte di fronte a una tanto ardente disperazione. Quelle parole, voci roche in discorsi frammentari, sono di chi parla vivo a un pubblico trincerato nei ranghi della norma e perciò prossimo all’afasia.
Il tema della cura trova spazio anche in altre opere del Filmmaker 2024, prima tra tutte il lavoro di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Un Documento - un titolo che è una dichiarazione d’intenti, meno di un documentario, forse un suo sottoinsieme. Girato interamente nel reparto di Etnopsichiatria dell’ospedale Niguarda di Milano, è cinematograficamente giocato sul fuoricampo, dal quale un anonimo paziente archetipico racconta una tragica storia di fuga. Anche il recente successo firmato dagli stessi registi, Bestiari, Erbari, Lapidari, in fase embrionale, prevedeva il termine cura all’interno del titolo, forse perché concepito nelle drammatiche circostanze dell’epidemia di Covid-19. L’esigenza dell’ascolto è una prerogativa di ogni età e non riguarda solo gli istituti psichiatrici. È un argomento vibrante anche tra i banchi di scuola, come nei film, presentati nel Concorso Internazionale, Apprendre di Claire Simon e Favoriten di Ruth Beckermann, premiato dalla giuria.
Ma il lavoro di Philibert, più di tutti, tra l’intimo e l’universale, attraversa con sensibilità la nevrosi, fluidifica il confine tra normale e anormale, eliminando nel montaggio i deliri troppo clamorosi e scongiurando il rischio di realizzare un reportage. L’autore indugia sui primi piani di volti segnati dal dolore; sta ben lontano, invece, da chi sembra nutrire un’adorazione per la camera. Mentre troppi parlano e pochi ascoltano, portare sullo schermo questi ritratti è il manifesto di un cinema che non guarda solo a se stesso, ma si apre alla realtà e ai soggetti che la abitano, ne accoglie e attraversa le questioni, in un grande atto d’amore.
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