Decimo lungo di finzione di Bertrand Bonello, sublime ballata di paure e desideri, dopo il passaggio in Concorso alla Mostra di Venezia nel 2023 è in sala, dal 21 novembre, The Beast (distribuzione I Wonder Pictures, qui informazioni sulle sale). Un film di un autore straordinario, un’opera che qui a bottega abbiamo amato follemente, alla quale abbiamo dedicato due servizi (vedi Film Tv n. 46 e n. 47/2024) e la cui uscita sosteniamo con il nostro progetto di supporto alla distribuzione Anima e corpo.
In occasione dell’arrivo del film nelle sale italiane abbiamo incontrato il suo protagonista maschile, George MacKay, trentaduenne londinese dal curriculum solido, fattosi le ossa tra ardimenti letterari (Peter Pan, Ofelia - Amore e morte) e storici (Defiance - I giorni del coraggio, 1917, Monaco - Sull’orlo della guerra), dotato di una fisicità empatica e di un portamento neo romantico, modulabile su più generi (l’horror di Marrowbone - Sinistri segreti, il mélo di Quando le mani si sfiorano) e insospettabilmente adatto a foggiature d’autore (lo attendiamo in The End, di Joshua Oppenheimer).
In The Beast tu sei l’oggetto del desiderio, nelle mire della mdp e al centro del female gaze, quello di Gabrielle/Léa Seydoux. Incarni quindi una figura opposta all’archetipo che percorre la storia del cinema: non la femme, bensì l’homme fatale...
Fin dalla prima audizione con Bertrand, a colpirmi di questo ruolo così ricco è stata la sua scissione, la ripartizione in tre personaggi che sono poi la stessa persona. È una questione da una parte di natura, dall’altra di cultura (nature and nurture): c’è qualcosa in noi che rimane inalterato a prescindere dall’ambiente, ma al contempo esistono delle grosse modificazioni dovute alle circostanze storiche in cui si è calati. Mi sono in seguito approcciato al racconto breve di Henry James da cui è tratto il film e ho capito che la “bestia” del titolo altro non è che la paura. Louis e Gabrielle sono anime gemelle perché lui comprende la sua paura, e la ragione è che lui è la sua paura. Dunque, l’elemento del desiderio si è legato a come io ho concepito l’essenza di Louis, intersecata appunto alla paura, che per me è il fil rouge fra i tre personaggi. Poi, il contesto storico inevitabilmente detta il modo in cui quella paura si manifesta: negli anni 10 viene repressa, Louis può e deve fermarsi. È come stare a un primo appuntamento sapendo che non ne verrà mai un secondo: dai il 90% di te e puoi essere intrigante, esotico, misterioso, perché comunque sai che quel restante 10% non lo vedrà nessuno e rimarrà privato, esclusivamente tuo. In quell’epoca, chissà, forse tra Gabrielle e Louis non sarebbe mai durata, magari sarebbe stato un grande affair ma non un grande amore.
Il tuo personaggio si muove su tre diverse linee temporali: è sempre lui, ma come hai detto la sua natura muta, così come la sua relazione con Gabrielle. Come hai lavorato su queste variazioni, su questi spostamenti di relazione e di senso, per esempio nel passaggio dal perfetto gentiluomo di inizio Novecento al giovane millennial immerso nell’humus culturale degli incel?
In parte si è trattato di capire quale fosse in ogni tempo il centro di Louis, per cui negli anni 10 la sua paura sotterranea non conta visto che la provano tutti, anche molto più di lui, mentre nel mondo del 2014 dove tutto è basato sul capitalismo, la conquista del successo, la mascolinità agguerrita e il dominio consumistico, qualcuno come lui, con un tale terrore dentro, non può funzionare, sa di non avere alcuna speranza e quindi si riempie di odio. Invece nel futuro, anno 2044, Louis si avvicina finalmente a poter esistere appieno, ma non riesce comunque a raggiungere quel fine. Ovviamente è stato anche il copione a “istruirmi”, con quei dialoghi così esatti e romantici. Lo slittamento tra inglese e francese ha inoltre a che fare con l’apertura di una breccia intima: fra i due protagonisti una delle due lingue è più privata, parlare in francese è sinonimo di un avvicinamento, da lui a lei, in una progressione amorosa. Mentre quando parlo inglese nel 2014, i miei monologhi sono tratti quasi parola per parola da quelli del killer incel Elliot Rodger, e sempre da lui ho preso in prestito una certa prossemica, e la gestualità.
Il lavoro che hai eseguito sul corpo nel corso della tua carriera è assai preciso: finora abbiamo fatto un’esperienza soprattutto muscolare di te, penso a 1917, a Wolf ma anche a The Kelly Gang e ad alcune commedie più “ruvide” come A Guide to Second Date Sex. In The Beast attui al contrario un processo di riduzione, sottraendo peso e fisicità alla tua performance, per cui sei lì ma sei anche altrove, fantasmaticamente.
Io e te siamo due persone culturalmente diverse, e mi affascina essere abituato a discutere di The Beast e del modo in cui viene interpretata la mia performance secondo modalità “americane”, che vertono su altro, mentre parlarne con te, con voi italiani, mi porta a focalizzarmi sul lato più intellettuale e cerebrale del film... Sicuramente questa è una storia che gioca con l’idea di un’idea, con l’essere solo un’immagine. Io credo ci sia qualcosa di inequivocabile nel corpo, un dato che mi ha sempre impressionato. Non lo puoi negare, il corpo, quando lo vedi: non è un effetto speciale, è reale, non puoi cambiare il modo in cui ti fa sentire ma puoi cambiare il modo in cui lo vivi nella tua testa... Ci si può innamorare dell’idea di una persona tanto quanto e nello stesso modo in cui ci si può innamorare della persona in sé, sono due dimensioni che hanno entrambe una legittimità. E difatti la chiave della relazione fra Gabrielle e Louis è il fatto che incombe su di loro questa sorta di minaccia esistenziale, la paura, che però è una loro creazione, e qui sta la tragedia. Per cui è giusto che Louis sia due cose in una, che sia questa energia palpabile, intima, percepita da Gabrielle, insomma che sia materia, ma anche la rappresentazione di una possibilità, la possibilità dell’amore in un senso che è di speranza, ma che è anche terribile. Quindi penso che la tua interpretazione sia molto bella e in alchimia con ciò che abbiamo voluto raccontare.
Nell’universo visivo di Bonello, che è solito lavorare con interpreti francesi, tu ti integri senza fatica, esisti in maniera naturale nei suoi moduli e nella maniera in cui mette in scena i corpi. Volevo quindi capire se già conoscessi il suo cinema, la sua poetica.
Non ero massicciamente familiare con il suo lavoro, ho guardato diversi film di Bertrand durante i provini. Specifico che, come già saprai, questo ruolo era stato scritto in origine per Gaspard Ulliel, che si stava preparando a interpretare Louis ma che durante la pre-produzione del film è tragicamente mancato. Solo in un secondo momento Bertrand ha ripensato il personaggio, e ha cercato un attore fuori dal suo paese perché non sentiva che nessun altro nel cinema francese fosse paragonabile a lui. A quel punto sono entrato in scena io. Ammiravo moltissimo il suo operato come cineasta, la sua estetica, il suo set è uno spazio molto collaborativo ma il suo sguardo è strettamente autoriale. E dal canto mio ero felice di poter consegnare nelle sue mani, alla sua visione, la mia piena autonomia come interprete. Ho studiato e gli ho offerto il risultato del mio lavoro, semplicemente abbandonandomi al contenuto emotivo come a quello artistico. Con Bonello nessuna notizia è una buona notizia, se al termine di un ciak lui annuiva, era tutto a posto. All’inizio è stato un po’ spaventoso per me trovarmi su un set francese, ho imparato la lingua quanto potevo ma era dura stare al passo con tutte le conversazioni, per cui mi risultava talvolta difficile mantenere una sicurezza in me stesso. Tuttavia questo approccio così curato da parte di Bertrand mi ha permesso di acquisire fiducia grazie alla fiducia nel mezzo, nella storia e nella regia che aveva lui. Lo rifarei di corsa!
Come è andata invece con Léa Seydoux? Insieme date vita a una sinergia ammaliante, a una vibrazione struggente.
È andata meravigliosamente. Léa è prima di tutto una persona speciale, al di là della recitazione si dà all’altro incondizionatamente, e, considerato anche il frangente infelice nel quale mi sono trovato a entrare in gioco, lei mi è stata di grande supporto e mi ha preso sotto la sua ala assicurandosi che fossi sempre parte di un tutto. È un’interprete mercuriale, ardua da “riassumere” a parole, e il lavoro con lei è pieno di sorprese. Léa sta dentro il momento, in modo istintuale, e non essendo il francese la mia prima lingua mi sono preparato tutto di testa, intellettualizzando forse troppo, sono arrivato “studiato” però poi con lei mi sono lasciato trasportare dalla spontaneità del presente. Proprio questo incontro di propensioni ha scatenato qualcosa nella nostra relazione per come l’abbiamo riportata sullo schermo. Dato che nessuno dei due capiva del tutto cosa stesse accadendo all’interno della narrazione, razionalizzare troppo ci avrebbe irrigidito, quindi ci siamo semplicemente lasciati andare.
Il film
The Beast
Fantascienza - Francia, Canada 2023 - durata 145’
Titolo originale: La Bête
Regia: Bertrand Bonello
Con Léa Seydoux, George MacKay, Tiffany Hofstetter, Guslagie Malanda, Julia Faure, Philippe Katerine
Al cinema: Uscita in Italia il 21/11/2024
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