Se c’è una cosa che riesce veramente bene al K-drama è il divismo. Per essere chiari: non è che il sistema televisivo coreano fomenti la divinizzazione di attori e attrici per spirito di beneficenza. Come dappertutto, l’obiettivo è quello di fidelizzare, di sedurre la pancia pagante dello spettatore, di fatturare e solo infine di regalare un sogno – alle persone che stanno da entrambi i lati della quarta parete. È un meccanismo, quello dello star system, che esiste da più di cento anni, che è stato fondamentale per la creazione di un’industria dello spettacolo florida e influente, e che oggi consideriamo un fenomeno di costume trasversale ed ecumenico. Esiste dappertutto e tutti ci marciano sopra; subire l’influenza di un divo è un processo universale simile all’esperienza del casinò: sai che ti stanno per spillare dei soldi, ma il sogno e l’emozione dell’esperienza valgono la candela. Se in tutto il mondo esiste un divismo di base – le produzioni investono su un progetto a seconda della presenza di interpreti in grado di spostare masse – in Corea del Sud c’è uno star system sotto steroidi che muove la maggioranza bulgara degli ascolti da una serie e l’altra a seconda degli attori e delle attrici presenti.
Song Hye-kyo, protagonista di Descendants of the Sun e di The Glory, è uno degli esempi più clamorosi in merito, ma arriva anche da una generazione già matura (ha 43 anni), che il nuovo mondo della comunicazione – volàno fondamentale per divi e divetti di oggi – lo prende per la tangente, trattandolo come uno strumento e non come un estensione di sé. Fra i divi coreani della generazione successiva, invece, una delle più promettenti è Kim Ji-won. Non solo per i 14 milioni di follower su Instagram, ma anche per la capacità di non rimanere incastrata nello stesso stereotipo di serie e di ruolo alla ricerca di un successo vuoto.
Dopo aver partecipato al trionfo fuori scala di Descendants of the Sun – era la rivale universitaria della protagonista e l’interesse romantico del migliore amico del protagonista – Kim vince le stellette necessarie a portare sulle spalle una serie nel ruolo di personaggio principale. Fight for My Way è una commedia romantica sul posto di lavoro di quelle che vanno alla ricerca di un certo neorealismo pettinato, dove Kim interpreta l’archetipo della ragazza forte e che non le manda a dire. Arthdal Chronicles è una mezza ciofeca che permette a Kim di cimentarsi con il dramma storico fantasy, e comunque la sua presenza basta a garantire alla serie una seconda stagione. In La regina delle lacrime – creata dalla Park Ji-eun di Crash Landing on You – è una ricchissima erede di terza generazione di una famiglia di imprenditori, che dopo una diagnosi di cancro terminale al cervello riscopre (nonostante le ingerenze esterne) l’amore per il marito, avvocato proveniente da una famiglia di contadini.
Il suo ruolo più significativo però, rimane ancora quello in Il diario della mia libertà (del 2022, si trova ancora su Netflix), ovvero un K-drama che per quanto riguarda gli ascolti è partito piccolo ed è finito medio-grande (evenienza rara per una serie a qualsiasi latitudine), e che ha avuto il coraggio di rendere umanamente interessante e fortemente empatica una delle piaghe più neglette della vita moderna: il pendolarismo.
I protagonisti di Il diario della mia libertà sono i tre fratelli Yeom. Sono tutti giovani, attorno ai trent’anni, e sono nati e cresciuti in una famiglia semplice e onesta di Sanpo, fittizio villaggio alla periferia della periferia di Seoul (“Oltre il bianco dell’uovo che circonda la vera città”). La primogenita Ki-jeong è depressa perché ormai teme che resterà sola per tutta la vita. Il secondogenito Chang-hee soffre perché si sente intrappolato ai margini dell’impero, con amici che non ha potuto scegliere e nessuna possibilità di riuscire a frequentare ragazze.
L’ultimogenita, Mi-jeong (interpretata da Kim) è fragile e malinconica perché si sente invisibile ed esclusa. Tutti e tre sono costretti a stare al gioco della società moderna e hanno un lavoro d’ufficio a Seoul con uno stipendio che non permette loro né di affittare un appartamento in città, né di mantenersi una macchina. Ogni giorno partono di casa alle sette per prendere un pullman e svariati treni, mentre la sera sono costretti ad affrettarsi per non perdere l’ultima corsa. Una situazione che influenza enormemente le loro vite nel rapporto con le persone che frequentano, rendendoli dei paria che vegetano alla base della gerarchia sociale.
I fratelli si fanno una domanda legittima: se fossimo nati a Seoul saremmo state persone diverse? Sono tutti convinti di sì, toccando un nervo scoperto di oggi, quello di un gioco sociale che ci mette poco a farti sentire inadeguato e in cui le regole non sono uguali per tutti. L’unica che tentenna è la sorella piccola, quella apparentemente più posata di tutti. In realtà soffre in silenzio. Sente che nessuno si interessa a lei, che la sua è una vita banale e che tale sarebbe anche se fosse nata nella grande città.
E allora, per sopportare la tristezza, si è inventata un amore immaginario che un giorno sa che conoscerà e con il quale conversa abitualmente, dando una voce fuori campo alla serie e un senso al titolo. Nel frattempo, a movimentare la sua attesa, c’è il misterioso operaio di poche parole che lavora nel laboratorio di lavandini e credenze del padre. Il diario della mia libertà fa davvero bene ciò che la narrativa popolare dovrebbe sempre fare: racconta una fetta topica di realtà senza eccessivi didascalismi. E la condisce con vicende umane a cui è difficile non appassionarsi, soprattutto per chi ha fatto esperienza delle miserie da primo mondo della vita da pendolare.
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