Salvador (Antonio Banderas), il regista di Dolor y gloria palese alter ego di Pedro Almodóvar, ricorda a un certo punto della sua storia come Eduardo, il ragazzo analfabeta a cui lui, bambino, insegnava a leggere e a scrivere, fosse impegnato, per sdebitarsi, a impreziosire con bellissime piastrelle decorate la dimora della sua infanzia. Nella finzione, quella in cui viveva il piccolo era una delle case-grotta di Paterna, un piccolo comune non distante da Valencia, le cui peculiari abitazioni sono considerate oggi patrimonio architettonico nazionale e impiegate sovente come alloggi turistici, ricalcando a grandi linee il percorso di riqualificazione che ha riguardato, in Italia, i Sassi di Matera.

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Dolor y gloria
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Salvador era dunque talmente povero da vivere con i genitori in una grotta, eppure aveva una madre, Jacinta, che non era disposta ad abdicare al diritto alla bellezza. Su questo non aveva alcuna intenzione di patteggiare. Il capolavoro dell’autore spagnolo (proprio come altri suoi ma forse mai con tanta nettezza) ci dice che l’amore per il bello (quindi per l’arte, estesa a comprendere il miglior design) è qualcosa di contagioso, qualcosa che si tramanda come un portato genetico; a tal punto che le piastrelle impiegate come elemento di basica decorazione durante la sua fanciullezza, torneranno in scena per arredare la magnifica casa del Salvador adulto, utilizzate in bagno in forma di mosaico e posate per decorare le pareti della cucina.

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Sarà la maggior disponibilità economica del protagonista, diventato un uomo di successo, a consentirgli di completare il “sogno estetico” della madre, tanto che il suo appartamento, come per una forma di orgogliosa rivalsa, avrà l’aspetto di un museo consacrato alla cultura del progetto, con pezzi fondamentali come il vaso Fazzoletto, disegnato per Venini da Fulvio Bianconi e Paolo Venini nel 1948 e parte della collezione permanente del MoMA;

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la notissima lampada Pipistrello, creata da Gae Aulenti nel 1965 e messa in produzione da Martinelli Luce; la poltrona Utrecht, sviluppata nel 1935 da Gerrit Rietveld che, connotata dalla giustapposizione di elementi ortogonali (lo schienale e il sedile che si incontrano a terra, i braccioli che assurgono a elementi di appoggio), diventerà simbolo (non diciamo “icona” ché altrimenti facciamo inalberare il direttore) del movimento neoplastico;

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la porta a vetri che separa la cucina dal living resa unica dai decori della designer Patricia Urquiola... senza contare piccoli dettagli quali il tostapane Smeg nell’edizione limitata a firma Dolce&Gabbana o la tazza (e relativo piattino) in ceramica Bleus d’Ailleurs prodotta da Hermès.

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L’elenco potrebbe continuare, ma non avrebbe gran senso. Il “nido” di Salvador, che lo scenografo Antxón Gómez ha realizzato perché duplicasse quanto più possibile fedelmente quello vero di Almodóvar (con tanto di riproduzioni dei suoi quadri appesi alle pareti), è allora la finalizzazione di un ideale a cui Salvador ha avuto accesso sin dalla più tenera età, quando una madre volitiva si ingegnava per abbellire una grotta utilizzando delle piastrelle e una tendina di perline di plastica colorate.

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Pezzi di design sono presenti anche nelle case di altri personaggi collegati a Salvador (la stampa serigrafica Pera di Enzo Mari in quella dell’attore eroinomane Alberto, un’altra Pipistrello in quella della sua assistente Mercedes), come se, per Almodóvar, questa disciplina rappresentasse anche un legame, un dialogo a distanza che tiene vivi i rapporti anche quando ci si è persi di vista.

Oggetti sono anche i ricordi più preziosi conservati dall’ormai anziana Jacinta. Ancora arnesi che – come la tenda di perline, come le piastrelle – non hanno un valore se non quello, inestimabile, di essere ammantati della dolcezza della memoria: una penna regalata alla donna dal marito perché potesse scrivergli lettere d’amore, un uovo di legno che le era utile a cucire.

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Che il miglior design avesse il diritto di rivendicare una funzione centrale, e non meramente decorativa, nella vita delle persone, era un’idea propugnata da un intellettuale come Sottsass (i cui totem ceramici punteggiano, non a caso, la residenza di Salvador, come anche un volume dedicato alla sua opera ben visibile tra gli altri presenti nella sua libreria), il quale sosteneva che esso “non finisce con l’oggetto messo in produzione dall’industria, ma inizia quando entra nelle nostre case, nelle nostre strade, città, cieli, corpi, anime. Il design inizia quando diventa rappresentazione visiva, fisica, sensoriale della metafora esistenziale sulla quale fondiamo le nostre vite”.

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E ancora, “Il design è un modo di discutere la vita. È un modo di discutere la società, la politica, l’erotismo, il cibo e persino il design. Certo, per me il design non è limitato dalla necessità di dare più o meno forma a uno stupido prodotto destinato a un’industria più o meno sofisticata; per cui, se devi insegnare qualcosa sul design, devi insegnare prima di tutto qualcosa sulla vita e devi insistere anche spiegando che la tecnologia è una delle metafore della vita”. Il design, per Sottsass come per Almodóvar è (era?) un fattore dirimente, una forma espressiva che non si esaurisce con l’oggetto stesso ma che vive insieme a chi lo ha scelto, quell’oggetto, producendo un impatto sulla sua esistenza, generando senso.

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E la fiducia che Almodóvar ha attribuito all’arte (dunque al design) attraverso il suo alter ego, è esplicitata come meglio non si potrebbe nel finale del film, quando il suo Salvador ritrova l’entusiasmo, la fiducia in se stesso e la gioia di vivere smarrita scoprendo in una galleria una manifestazione artistica di commovente candore: l’acquerello con cui Eduardo lo aveva ritratto tra la posa di una piastrella e un’altra. Un’opera realizzata da chi, nell’arte, aveva visto il fugace sollievo a una vita di sacrifici; un’opera che permetterà, a chi l’aveva praticata in passato edificando la propria vita attorno al suo ideale, di tornare a frequentarla. Di tornare a vivere in suo nome.

Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina Dolor y gloria

Dolor y gloria

Commedia - Spagna 2019 - durata 108’

Titolo originale: Dolor y gloria

Regia: Pedro Almodóvar

Con Antonio Banderas, Penélope Cruz, Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia, Julieta Serrano, Raúl Arévalo

Al cinema: Uscita in Italia il 17/05/2019

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