Io vi vedo, a voi ragazzi e ragazze con la tessera platino del cineforum. Vi vedo in un angolo in controluce di una sala parrocchiale di provincia al termine del dibattito intitolato “Le invasioni barbariche ha vinto l’Oscar come Miglior film straniero l’anno in cui Bong Joon-ho ha fatto Memories of Murder: alla faccia vostra che vi piace il cinema di genere”. So che state pensando una cosa ben precisa: non leggerò mai Onda coreana e non guarderò mai un K-Drama perché noi regaz del cinematografo d’essai abbiamo un superpotere che l’intrattenimento popolare non ha; noi, dalla nostra parte, abbiamo gli AUTORI. Che secondo me è la risposta sbagliata alla domanda sbagliata. Da una parte perché sono passati decine di migliaia di anni dalla teorizzazione della politica degli autori e il discorso si è evoluto di molto; dall’altra perché, guarda un po’, anche il sistema produttivo, distributivo e artistico dei K-Drama si basa su quella che possiamo definire una politica degli autori, non troppo dissimile (nella sostanza) da quella propugnata dai giovani turchi.
Torniamo dunque a parlare della boss finale Kim Eun-sook, che prima di creare e sceneggiare The Glory aveva fracassato gli indici di ascolto pan-asiatici nel 2016 con Descendants of the Sun.
Nel magico matto mondo dei K-Drama, succedono sistematicamente due cose che – e per conferma potete chiedere a qualsiasi professionista della tv in ambito occidentale – farebbero accapponare la pelle dal terrore a qualsiasi produttore (ma anche a qualsiasi regista, attore e membro della troupe). Primo: le serie vengono realizzate in contemporanea alla trasmissione televisiva delle stesse per poter apportare modifiche alle sceneggiature qualora il pubblico lo desiderasse ardentemente – anche se Descendants of the Sun è la rara eccezione che conferma la regola, e peraltro proprio per questo motivo ha rischiato di non essere prodotta. L’altra follia produttivo-organizzativa sta nel fatto che, la stragrande maggioranza delle volte, i K-Drama sono scritti (e anche diretti) da un’unica persona (che può non essere la stessa che si occupa della regia). Il che non solo aiuta le serie ad avere un’unità stilistica e lessicale che dalle nostre parti ricche di writers’ room ci sogniamo – tanto che non siamo più troppo abituati a ricercarla nella nostra visione – ma oltretutto assomiglia veramente da vicino a una politica degli autori passata dalla teoria alla pratica. In Corea, ci si sintonizza su quel K-Drama piuttosto che su quell’altro perché l’ha scritto la tal autrice e l’ha interpretato tal divo.
Un grosso applauso agli showrunner coreani, dunque, che per il nostro sollazzo si sobbarcano un lavoro talmente stressante che non lo augurerei neanche al miglior amico del mio peggior nemico. Certo, non stiamo parlando del turno di notte su una piattaforma petrolifera russa in mezzo all’Artide. E la ricompensa per un lavoro ben svolto non è un bis di zuppa tiepida di barbabietole, bensì imperitura gloria e un mucchio di soldi. Ma poi, quanto successo ha fatto Descendants of the Sun? Grazie mille per la domanda. La risposta è: tanto. In patria la serie è stata vista, in media, da quasi il 30% degli spettatori. Aggiungendo il mercato cinese – Descendants of the Sun è stato il primo K-Drama a essere distribuito contemporaneamente in Corea e in Cina – la serie ha raccolto quasi due miliardi e mezzo di visualizzazioni nel corso della sua messa in onda. Vi lascio un secondo per provare a quantificare nella vostra mente due miliardi e mezzo di spettatori per una serie tv tradizionale e poi per pensare ai vertici di Nove che esultano quando Fazio ne fa 2 milioni.
Descendants of the Sun è una commedia romantica dallo chassis piuttosto classico (in ambito di K-Drama), innalzata dalle peculiarità di autrice di Kim Eun-sook, che già si era dimostrata propensa a un certo gusto per le ambientazioni esotiche con la sua trilogia strappalacrime Lovers in Paris, Lovers in Prague e Lovers (sull’isola di Hainan in Cina - ma non fa parte del titolo). Qui, Kim se la gioca in maniera ancora più estrema, ammettendo tacitamente il desiderio di emanciparsi dalla realtà sociopolitica e cercando una forma quasi totale di escapismo che prevede l’invenzione di un finto stato chiamato Uruk – chiaramente ispirato all’Iraq ma piazzato nei Balcani – dilaniato dalla guerra ma anche da un fittizio virus (l’M3) ben peggiore dell’ebola. Un disastro umanitario perfetto per incubare l’ovviamente complicatissima storia d’amore tra i due protagonisti.
Yoo Si-jin (nome in codice: Big Boss) è un capitano delle forze speciali che, nell’incipit, viene presentato come l’archetipo dell’eroe umile: è leale, devoto alla causa, sensibile e ironico, anche quando combatte all’arma bianca contro un pari ruolo del Nord nella rapida scena che lo introduce. Si-jin, figlio d’arte di un sergente maggiore in pensione, combatte (e inevitabilmente uccide) per proteggere i suoi cari e difendere l’onore dei suoi uomini e del suo paese, non per gloria o guadagno personali.
Kang Mo-yeon, invece, è una giovane, talentuosa e volitiva chirurga toracica che non le manda a dire, specialmente quando si tratta delle ingiustizie che subisce sul lavoro perché non è protetta da qualcuno di potente ma è solo molto brava a fare il proprio mestiere. Il fato li fa conoscere dopo l’ennesimo atto encomiabile di Si-jin, che insieme al commilitone Seo Dae-young ha fermato il ladruncolo Kim Gi-bum in flagranza di taccheggio e lo ha spedito in ospedale a farsi curare le ammaccature. Per il capitano è amore, pazzo amore a prima vista. Per la dottoressa un po’ meno.
Tra fraintendimenti innocui e incomprensioni apparentemente insormontabili – tu hai giurato di uccidere, io di salvare le vite – il rapporto fra i due non decolla come vorrebbe Si-jin, nonostante l’evidente e reciproca attrazione. Ed ecco che entra in scena l’Uruk, la guerra, la pandemia, la crisi umanitaria e tutto il corollario di eventi e imprevisti per caricare di pathos un melodramma che culmina su una spiaggia albanese con l’aiuto di un sasso colmo di significato.
Non manca, inoltre, un intreccio di sottotrame perfettamente calibrato, con il sergente Seo che si innamora dell’acerrima rivale universitaria della dottoressa Kang; e con il giovane delinquente Kim che si innamora della vita militare e si coscrive nelle forze armate attive. Ecco, se proprio dovessimo fare un appunto a Descendants of the Sun e alle sue 16 puntate (le trovate in streaming su Viki.com) sarebbe quello di esagerare troppo con l’apologia dell’esercito sudcoreano, rendendo fin troppo glamour la cultura militare e sdoganando un certo nazionalismo un tanto al chilo.
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