Personalmente sono convinto che, per raccontare al meglio un evento come la giovinezza, ci sia bisogno di qualcuno che nonostante il passare del tempo abbia capito come tenersi stretto quell’eccesso comunicativo e vitale imparando a imbrigliarlo. E l’unico posto in cui l’eccesso può davvero sfogarsi (legalmente) è l’arte. Gli unici che possono raccontare in maniera sensata l’adolescenza, insomma, sono gli artisti. Dal momento che l’ultima volta vi abbiamo presentato Masaaki Yuasa – l’autore di anime che più di tutti, negli ultimi dieci o quindici anni, ha saputo apportare un cambio di paradigma estetico e narrativo nel mondo della serialità a cartoni – ora è il caso di approfondire la sua conoscenza parlandovi di The Tatami Galaxy, la serie che nel 2010 ha cementato lo stile di Yuasa dopo il suo esordio cinematografico (Mind Game) e televisivo (Kemonozume, Kaiba). È disponibile gratuitamente su VVVVID e, se non conoscete ancora Yuasa, difficilmente troverete qualcosa che possa prepararvi alla visione – forse i primi film sperimentali (come Angel’s Egg) di Mamoru Oshii (quello di Ghost in the Shell), che tuttavia hanno toni decisamente più cupi.
Sono sicuro, infatti, che nella vostra lunga e luminosa vita seriale non abbiate mai visto, tanto per fare l’esempio più immediato, un incipit più serrato di quello di The Tatami Galaxy (tratto dall’omonimo romanzo di Tomihiko Morimi), il cui primo impatto sullo spettatore sono 3 minuti di una densità vicina a quella di un corpo celeste. Tutto per introdurre l’innominato protagonista e narratore (uno studente universitario insoddisfatto e perennemente infelice), la Kyoto universitaria che lo circonda nei pressi di un tempio in cui la gente va a pregare per trovare l’amore, e il baracchino che vende ramen al gatto – così si sussurra sia fatto quel brodo, ma il sapore rimane ineguagliabile – in cui il ragazzo sta mangiando.
Yuasa incista l’introduzione di The Tatami Galaxy di tecniche, narrative e di animazione, occupando tutto lo spazio cognitivo dello spettatore. Nel giro di una scena, siamo inglobati nel punto di vista di un ventenne in crisi, siamo travolti dal prodotto in eccesso di una mente priva di certezza che gira su se stessa a una velocità inadatta al benessere psichico.
Mentre mangia ramen di gatto, il ragazzo incontra una divinità del tempio Shimogamo, che gli dice di far parte di un pantheon di gente soprannaturale che ogni anno si ritrova e decide le sorti amorose delle persone che sono venute a pregare. Per aiutare questo ragazzo, un po’ timido, un po’ insicuro, molto egoista e fermamente convinto di essere apprezzato meno di quanto meriti, lo spirito gli preannuncia che la bella studentessa di ingegneria Akashi è destinata a stare con uno tra lui e il suo antagonista Ozu, nemico-amico nonché compagno di cazzeggio e scorribande cattivelle all’università.
I due si sono incontrati un paio di anni prima rispetto alla profezia del dio degli accoppiamenti, e sin da allora Ozu fomenta il lato oscuro del protagonista portandolo su una china puerile di vendetta sterile nei confronti di tutti quelli che sono più felici di loro, ovvero i coetanei che hanno una vita sociale e riescono ad avere un rapporto con persone dell’altro sesso. Ozu ha pessimi voti, è un bulletto egoista e menefreghista, pigro, privo di orgoglio, scarso nello studio, debole con i forti e forte con i deboli. Eppure il suo carisma malvagio risucchia e manipola facilmente il protagonista, che in ogni episodio si ritrova a vivere una linea temporale alternativa in cui cerca a tutti i costi di integrarsi con i coetanei e di avere un’esperienza universitaria felice, fallendo puntualmente sia per colpa della mattate di Ozu, sia a causa dei propri limiti e dei propri difetti.
Il protagonista aveva grandi aspettative per quanto riguarda gli anni dell’università. Sognava di vivere una vita rosea, amato da una fanciulla dai capelli corvini. Alla prima delusione, però, il ragazzo si è affossato, si è rinchiuso in se stesso e ha partorito questo viaggio onirico in cui ripercorre gli ultimi due anni accademici ripensando ai se e ai ma, alla ricerca di un modo per uscire da questo circolo vizioso di insicurezza e auto-commiserazione.
Yuasa prende una manciata di archetipi della narrazione shonen – l’eroe sfigato che intrattiene rapporti con una forza soprannaturale e viene instradato verso una difficile e faticosa strada per il successo – e di quella shojo (il corrispettivo destinato a un pubblico femminile incentrato sul romanticismo), e li sconvolge filtrandoli attraverso il suo sguardo punk e lisergico. Facciamo esperienza di ciò che accade, infatti, dal punto di vista soggettivo del protagonista, che quando appare nel suo presente è sempre rappresentato in bianco e nero (tranne per il dettaglio degli occhi grigi); entriamo nel confuso multiverso del palazzo della sua memoria, ed è per questo che i i colori della messa in scena sembrano sbagliati e saturano troppo, mentre le immagini si deformano e sono interpolate da fotografie o animazioni in tecniche miste: è una splendida rappresentazione della fallacia artistica della memoria umana.
In questo magnifico dipinto dell’eccesso vitale giovanile – stracolmo di energie che rischiano di essere mal riposte senza un accenno di rotaie a indirizzarle – ogni singola inquadratura è un’invenzione diversa, la cui eccentricità fa perfettamente il paio con una narrazione interna al protagonista, quindi per forza di cosa costretta a saltare di palo in fresca, seguendo i caotici collegamenti delle sinapsi e l’inaffidabilità emotiva dei ricordi.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta