David Chase non voleva cambiare per sempre la televisione. David Chase voleva fare un film. Ci pensava da tempo, anche se non aveva mai fatto il regista: lui scriveva per la tv. Ed era, come tanti di noi, ossessionato dal rapporto con la propria madre. Fai un film su questo, gli disse qualcuno: un autore televisivo che ha una relazione tossica con la propria mamma. Ma chi vorrebbe vederlo? Meglio farne un gangster. Robert De Niro, magari; e per la madre, Anne Bancroft. Questo film non è mai esistito, ma in compenso è esistito il pilot di I Soprano, e David Chase ha cambiato per sempre la televisione.
Se tutto questo sembra una confessione da seduta di psicoterapia, è perché lì ci troviamo: Alex Gibney ricostruisce lo studio della dottoressa Melfi e ci fa accomodare Chase, lasciandolo parlare a ruota libera della sua seminale creatura, a 25 anni dalla messa in onda del primo episodio, su HBO. Poi l’orizzonte si allarga ed entrano in campo i volti della serie: Edie Falco, Michael Imperioli, Lorraine Bracco, Steven Van Zandt e, con interviste d’archivio, il compianto James Gandolfini. E poi gli autori della mitologica writers’ room, e i registi (Chase diresse solo due puntate, la prima e l’ultima). Il lavoro di montaggio fatto sulle immagini dello show è inappuntabile, trasformando a tratti il doc a teste parlanti in un vero e proprio videosaggio diviso per capitoli, che dipana le discendenze cinematografiche della serie (Polanski, folgorazione di Chase, da Cul-de-sac a Chinatown; 2001: Odissea nello spazio; Il Padrino, ovviamente), analizza le notevoli sequenze oniriche e segue il ménage à trois geniale e infernale tra Chase, Gandolfini e Tony Soprano medesimo, un gioco di rispecchiamenti e di lacci più o meno consapevoli che ha portato il creatore a sfogare nell’antieroe la sua rabbia sopita, e l’attore a fondersi col personaggio sino a giocarsi la salute, fisica e mentale (James usava la privazione del sonno per rendere più nervosi e violenti i gesti di Tony).
Un flusso di coscienza collettivo che va molto oltre la golosità dell’archivio che scoperchia (i provini originali per tutti i ruoli principali; le migliaia di comparse del New Jersey in coda per un ruolo; frammenti dalla stanza dove avveniva la magia, con la lavagna su cui Chase scriveva di getto, e spesso cancellava per lo sconforto di tutti, le trame degli episodi), trovando nella singolarità delle radici di I Soprano, al netto della componente gangster così autobiografica (i luoghi, le facce, le frasi con cui lo showrunner era cresciuto), una qualità sorprendentemente universale, non solo per la comunità italoamericana.
Non si tace della personalità esigente e dittatoriale di Chase, dei suoi sbalzi d’umore e della sua impulsività; né dei tanti giorni in cui Gandolfini non si presentò sul set (chiedendo poi che gli fossero decurtati dal salario); neppure delle manovre di HBO per non dare l’aumento agli attori (con l’escamotage della sesta annata bipartita, anziché due distinte stagioni). Ricordi, spezzoni e testimonianze si srotolano fino alla lunga, bellissima analisi del clamoroso episodio finale, e dello schermo al nero più celebre della storia della tv: la vera storia di quella chiusa, Chase non la dirà mai, ed è questo il suo capolavoro.
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