Vi svelo un segreto. Volete sapere un po’ prima degli altri da dove gemmerà la nuova onda di cultura pop che proviene da un paese e da una società talmente distanti che i talk show mattutini si sentono tranquilli a battezzarla “esotica”? Provate a spulciare i numeri degli iscritti ai corsi universitari di lingue straniere e poi aspettate pazientemente. Sul serio. Trent’anni fa, per esempio, avreste notato intere aule stracolme di ragazzi e ragazze che erano lì per imparare il giapponese al solo e unico scopo di leggere meglio manga e anime, talmente si erano appassionati al genere. E sappiamo cos’è successo al boom universale di manga e anime nell’ultimo paio di lustri. Quindici anni fa invece – lo so perché c’ero, anche se per altri motivi – avreste notato un boom nelle iscrizioni ai corsi di coreano, affollati di gente appena sbocciata dall’adolescenza che avrebbe fatto qualsiasi cosa, anche studiare, per capire alla perfezione i testi dei suoi cantanti K-pop preferiti e i dialoghi dei suoi K-drama preferiti.
Da questo osservatorio tanto privilegiato quanto casuale era già chiara una cosa che persino un cieco avrebbe notato: l’onda coreana stava per schiantarsi anche sulle spiagge dell’intrattenimento occidentale. Poi, nel 2012, PSY ha infranto ogni record (dell’epoca) su YouTube con Gangnam Style ed è stata una parentesi divertente – pensavano alcuni. Quindi, attorno al 2016, inizia la scalata globale dei BTS, che nel 2019 vengono inseriti dal Time nell’elenco delle 100 persone più influenti al mondo. Quasi al culmine del crescendo, nel 2019, Parasite vince l’Oscar come Miglior film punto. Senza “in lingua straniera” attaccato. E alla buon’ora, nel 2021, è finalmente il momento del linguaggio televisivo e dei K-drama: Squid Game viene visto (e largamente compreso e apprezzato) da quasi tutto il mondo che può permettersi il lusso di guardare le serie tv.
Non la chiamiamo Onda coreana a caso. In Cina, grazie alla prossimità e alla condivisione di certi valori del confucianesimo, il soft power dell’industria dell’intrattenimento coreana – affinata da decenni di autarchia e di arte dell’arrangiarsi che l’hanno resa l’oggetto unico e irripetibile che apprezziamo oggi – è presente da molto più tempo e sin dalla fine degli anni 90 è stato ribattezzato con un titolo che l’ambiente accademico della Corea del Sud ha abbracciato con somma gioia: hánliú (traslitterato come hallyu in coreano e a livello internazionale), che significa esattamente onda coreana. Le alternative, ora che quest’ultima ha raggiunto anche le nostre sponde, sono quelle di sempre quando qualcosa di nuovo e diverso si presenta con tanto impeto: o spassarsela a surfare insieme a quei pionieri che quindici anni fa studiavano coreano all’università, senza farsi prendere dallo sconforto quando ti prendono in giro perché non sai recitare a memoria i nomi di battesimo dei 25 membri degli NCT; oppure sollazzarsi al bar della spiaggia, fuori dalla portata del maroso, e osservarli mentre si divertono come matti a cavalcare l’onda. In ogni caso, non mi sembra saggio farsi cogliere alla sprovvista e finire sott’acqua.
Anche perché sarebbe un attimo farsi sommergere dalla portata di un’onda magnifica come quella del K-drama. Una forma di linguaggio così a se stante, a tal punto trasversale tra generi e toni, e talmente caratterizzata da un contesto produttivo unico e irripetibile, che l’unico termine di paragone possibile è quello dell’epoca platino – a cavallo fra anni 80 e 90 – del cinema di Hong Kong, tanto inclassificabile quanto perfettamente riconoscibile. E allora, visto che questa volta ci siamo presi per tempo e i mezzi sono decisamente più comodi rispetto alle VHS di importazione dei tempi di Hong Kong, fermiamoci a osservare questa onda coreana, cercando di ricavarne il meglio e, appuntamento dopo appuntamento, scoprire qualcosa in più sui titoli più significativi, interessanti o divertinti, sulle peculiarità produttive e storiche e sullo stato delle cose nel magico, matto mondo del K-drama.
Lo stato del K-drama a oggi è che Netflix, la più grande e influente realtà dello streaming globale, l’anno scorso ha vinto le statuette principali dei più importanti premi di settore coreani (tra cui i Baeksang Arts Awards e i Korea Drama Awards) con una serie che ha prodotto al culmine – Squid Game è solo la punta della punta dell’iceberg – di un lustro abbondante di investimenti nel settore: si intitola The Glory ed è fuor di dubbio un K-drama da manuale. Innanzitutto perché ha il timbro di Kim Eun-sook, veterana del piccolo schermo. Una che già nel 2004 mieteva vittime, mettendo davanti al televisore mezzo paese (quasi letteralmente) con Lovers in Paris, parte di una trilogia esotica che ha fatto scuola e che comprende anche Praga e l’isola di Hainan, in Cina.
Ma soprattutto perché è una serie drammatica che ruba la struttura ad accumulo di un altro genere con regole tutte sue (la soap opera) per mettere il più grande quantitativo di carne possibile sul fuoco. Lo scopo è quello di costruire personaggi facilissimi da incasellare di primo acchito – la vittima, la carnefice, la sadica, il succube, l’annoiato, l’ingenuo, il gregario, il leader, l’innamorato – e dare loro un obiettivo narrativo impossibile da fraintendere; per poi immergere queste figurine in situazioni e relazioni complesse e turbinanti, nelle quali i generi e i toni possono confondersi senza mai perdere di vista il traguardo, fino a trasformarle in personaggi complessi e in grado di ispirare empatia.
In The Glory l’obiettivo è la vendetta. Dong-eun, liceale di scarsa posizione sociale, viene torturata fisicamente e psicologicamente da un gruppo di bulli e bulle guidato dall’aguzzina Yeon-jin, ricca, privilegiata e impunita coetanea che mette sempre le cose in chiaro: ti ustiono su tutto il corpo con una piastra per capelli e ti umilio mettendoti nella posizione di non poter reagire perché tanto a me non fanno niente e a te non cambia niente, continueranno a non darti retta e a fregarsene di te. Ha ragione.
In Corea, da qualche tempo a questa parte, la sensazione è che le differenze di estrazione sociale portino a iniquità e sperequazioni insite nel sistema sociale. Ingiustizie inappellabili, se non prendendo personalmente in mano la questione per esigere la propria vendetta. E Dong-eun decide di prendersi tutto il tempo che le serve per incassare: 15 anni della sua vita e 16 puntate della durata compresa fra i 47 e i 72 minuti della nostra.
Tempistiche all’interno delle quali i personaggi (specialmente la protagonista) crescono a dismisura, le situazioni si intrecciano, si risolvono e si moltiplicano, i toni passano dal poliziesco, al thriller psicologico, dall’horror al melodramma. La ricompensa, in questo tipo di esperienza televisiva in immersione, è intensa e appagante. E racconta, con toni iperbolici e votati all’intrattenimento, i fantasmi di una società che più mette in piazza i propri malesseri, più guadagna interesse da parte degli occidentali.
La serie tv
The Glory
Drammatico - Corea del Sud 2022 - durata 52’
Titolo originale: ? ???
Con Lee Do-Hyun, Margaret Hsian, Harrison Xu, Anzu Lawson, Aria Song, Ji-yeon Lim
in streaming: su Netflix Netflix basic with Ads
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