Di cosa parla, davvero, The Bear, la serie dei record, premiata e osannata, e (almeno in Usa) seguitissima e immensamente chiacchierata? Di alta cucina e mondo della ristorazione, si potrebbe rispondere, senza sbagliare, più che mai in questa terza annata, costellata com’è di camei di chef celebrità, di dietro le quinte di vere istituzioni del fine dining, di dimostrazioni di come (non) funziona un locale stellato (o che ambisce a essere tale), e naturalmente di goduriosi dettagli su piatti somiglianti a opere da museo.
Vale per i migliori racconti, è la specificità a renderli tali; ma la vera forza di The Bear sta, ancora di più, nella sua prismaticità interpretativa, nella capacità di far risuonare verità ed esperienze lontane sulla sua superficie culinaria. The Bear è una prodigiosa serie sul lavoro contemporaneo, sull’inesauribile carico d’ansia che inevitabilmente l’accompagna, sulla tossicità delle relazioni che forgia, e sull’insolubile contraddizione che può rendere la realizzazione professionale insieme nociva e salvifica.
The Bear è, altrettanto precisamente, una serie sulla salute mentale, sulle ripercussioni a cascata di traumi irrisolti, sulla famiglia come terreno di coltura di conflitti, angosce e ferite generazionali (cicatrici «che fanno così male da non fare più male»), e di nuovo - sul meraviglioso paradosso dell’affidarsi a una famiglia elettiva, dove trovare la pace che manca ma anche rischiare di riprodurre le stesse patologiche dinamiche.
Ovvio che The Bear, la storia di un talentuoso e tormentato artista, sia pure una serie sull’arte e sul suo prezzo, e dunque anche, in una vertigine meta, sulla creatività e la creazione, sì, perfino di una serie tv: questa terza stagione - la prima a non raccogliere consensi unanimi tra critica e pubblico, ma anzi a sollecitare vive proteste tra alcuni spettatori segna indubitabilmente un cambio di passo, pare rifiutare il ritmo frenetico che in tanti identificavano come suo marchio di fabbrica, abbandonarsi alla meditazione (grazie al sempre impeccabile lavoro di montaggio e soundtrack), e a tratti girare a vuoto, perdere tempo («ogni secondo conta», però al contrario?), non scegliere una direzione.
La coincidenza tra il protagonista Carmy e la serie stessa si fa cristallina: lui è ancora bloccato dentro la metaforica stanza frigo di fine seconda stagione, il ristorante The Bear e la sua crew non riescono a trovare il proprio ritmo e senso, e The Bear, proprio come loro, pare indecisa, incastrata, tra ambizioni e terrori. È un’annata interlocutoria, e preparatoria - lo urla il cliffhanger su cui si chiude bruscamente l’ultima puntata -, le cui stonature sono forse anche indizi da non sottovalutare, sintomi di un Sogno (non solo) americano fallato, insufficiente, menzognero.
Non è un caso che gli spiragli di luce - in una cucina che, a differenza di quella sporca e malconcia della prima stagione, è ora linda e smagliante, eppure sentiamo ancor più claustrofobica - risplendano nei momenti in cui The Bear torna alle sue radici working class, e ai modi inaspettati in cui scopriamo di saperci salvare a vicenda: è il sesto l’episodio più bello, dedicato a Tina e al suo miracoloso incontro con Mikey - con Ayo Edebiri/Sydney dietro la mdp, l’ennesimo cortocircuito commovente.
La serie tv
The Bear
Commedia - USA 2022 - durata 29’
Titolo originale: The Bear
Creato da: Christopher Storer
Con David Zayas, Jeremy Allen White, Corey Hendrix, Bob Odenkirk, Jon Bernthal, Christopher Storer
in streaming: su Disney Plus
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