Si chiama casting sauvage, letteralmente “casting selvaggio”, il reclutamento di attori e attrici tra persone comuni, scoperte tramite i social o nei luoghi pubblici, “prese dalla strada”, verrebbe da dire. Ha fatto pratica come direttrice di casting, specializzandosi in quelli sauvage, la regista belga Emmanuelle Nicot, che fa dello scouting una vera e propria passione: «Un’attività che amo», dice, «perché permette di comprendere la complessità del mondo attraverso la diversità dei volti incontrati per strada o in metropolitana». Una passione che emerge anche nei suoi film (spesso composti da non professionisti), due corti e un lungo fatti di volti che prendono tutto lo schermo (insiste su primi e primissimi piani, una scelta stilistica reiterata, quasi una firma), facce che sono porte d’accesso al mondo interiore delle sue protagoniste, a cui accostarsi con cautela e pudore. Lo si vede bene nel corto di diploma Rae (2012; lo trovate qui, solo in versione originale senza sottotitoli) su una giovane donna vittima di abusi che viene accolta in un rifugio.
O nel successivo À l’arraché (2016) - su ARTE con il titolo Raïssa and Alio, disponibile gratuitamente fino al 1º giugno 2025 -, che nasce da un periodo d’immersione e osservazione all’interno di una casa famiglia per adolescenti in Francia. E proprio dalle drammatiche storie di tante ragazze prende forma questo corto di finzione (ha una genesi simile l’opera prima L’amore secondo Dalva, del 2022), ambientato in un centro di accoglienza dove vivono la diciassettenne Raïssa, aspirante parrucchiera, e la diciottenne Alio, invischiata in una relazione problematica. Il film tratteggia i contorni di un luogo particolare (la casa famiglia appunto, descritta poi in maniera più dettagliata nel lungo successivo), ma ruota soprattutto attorno all’amicizia che lega le due teenager, o meglio allo strappo (come da titolo francese) che incrina il loro rapporto: cresciute insieme senza genitori né punti di riferimento, bastando a loro stesse, sono una la bussola dell’altra, ma quando Alio prova a «crescere da sola», abbandonando la casa senza raccontare della sua gravidanza, Raïssa la rincorre, mettendo a rischio il suo futuro.
La narrazione - una collezione di inquadrature ravvicinate sulle due - è scritta sui visi delle esordienti Hajar Koutaine e Clémence Warnier: così l’espressione severa eppure materna della prima lascia trasparire la devozione per l’amica e la rabbia incontenibile di fronte al non poter fare nulla, mentre i grandi occhi della seconda, segnati da un buio di lividi e trucco pesante, dicono di un senso di spaesamento e insieme di una grinta mai provata, tesa ad affrontare la vita con le proprie forze.
Ancora un volto si staglia al centro dell’esordio nel lungo di Nicot, L’amore secondo Dalva, quello «a cui non riesci a dare un’età» di Zelda Samson, scoperta anche lei con un casting sauvage, attraverso un annuncio pubblicato in una scuola di musica: «Il suo viso invecchia o ringiovanisce a seconda dell’angolazione della telecamera, come quello di Romy Schneider. Vista di fronte dimostra 10 anni, di profilo invece 18», dice la regista, che vede in Samson l’incarnazione della sua Dalva, dodicenne che pare già matura, abusata per anni dal padre e portata dagli assistenti sociali in una centro di accoglienza.
Nel piccolo corpo di Dalva sono in costante lotta la bimba senza infanzia e l’adulta; dietro la sua maschera algida di femme, tolti il rossetto, le perle, i pizzi, si scorge lo sguardo di una fille, una bambina forzata a diventare donna prima del tempo, come Raïssa e Alio, ragazze interrotte alle prese con un processo di crescita che va di pari passo con quello dell’elaborazione di un trauma subito.
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