Chiedi chi era Frank Lloyd Wright. Oggi la risposta è facile, perché il grande architetto è diventato negli anni quasi un’icona pop (lui non ne sarebbe felice), omaggiato anche da una copertina di Life Magazine e da una canzone di Simon & Garfunkel, So long, Frank Lloyd Wright. Non era così nel 1949, l’anno di La fonte meravigliosa (The Fountainhead), diretto da King Vidor e tratto dal libro omonimo del 1943 di Ayn Rand, in cui Howard Roark, il protagonista interpretato dall’eroe americano per eccellenza, Gary Cooper, è una versione di Wright idealizzata fino al superomismo.

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La fonte meravigliosa

Il romanzo di Rand nasceva da un’ultraventennale corrispondenza tra la scrittrice e l’architetto, nel quale lei vedeva la sintesi in carne e ossa dei precetti a cui aveva consacrato la propria vita: strenuo individualismo, egoismo razionale ed esaltazione per il capitalismo. Sosteneva Lorenzo Codelli su Positif che “se leggiamo A Testament (1957), scritto da Frank Lloyd Wright otto anni dopo il lavoro di Vidor, restiamo stupefatti nel ritrovarvi perfettamente intatta l’ideologia che ispira sia il romanzo di Ayn Rand che il suo adattamento cinematografico. Prima di The Fountainhead, non si era mai verificata una coincidenza tanto profetica con la biografia di un artista vivente. [...] I décors di stile wrightiano vengono suggeriti da grandi vetrate o da colonnati razionalisti, mentre viene mostrata in modo più dettagliato l’estetica opposta: il kitsch futurista degli uffici del giornale, lo stile neoclassico delle dimore patrizie.

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Vidor si riallaccia qui al Thomas Mann di Doktor Faustus, dove l’artista d’avanguardia veniva ritratto dal suo amico, artista ‘borghese’ per eccellenza, che, senza comprenderlo, gli attribuisce tratti demoniaci. Anche Howard Roark ha aspetti da superuomo, ma nel suo caso è il Principio Divino che lo ha generato e che lo ispira”. La fonte meravigliosa - magnifico mélo che vive di derive: western, noir, perfino war movie nella sequenza in cui viene fatto esplodere un progetto del Maestro - è costruito per esaltare progressivamente e sempre più convintamente l’individualismo del protagonista contro le istanze collettive che vorrebbero tarpare le ali al suo genio.

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La sua è una guerra contro tutti: contro il preside della facoltà di Architettura, che lo espelle dicendogli che nessuno può migliorare gli edifici del passato, che questi possono solo essere copiati, accusandolo di disegnare “opere che non assomigliano a nulla di quanto costruito prima”; contro colleghi già affermati che lo invitano al compromesso; contro committenti che prima gli commissionano la realizzazione di una banca ma poi vorrebbero ammorbidire i suoi disegni con un tocco di “classica dignità”, secondo un’estetica appunto neoclassica che non voleva saperne di andare in soffitta e la cui ultima, potente manifestazione, è identificata con il Jefferson Memorial di Washington, 1943.

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Una guerra contro i mediocri, a cui Roark risponde sostenendo che ogni costruzione ha una sua dignità, esattamente come un uomo, liquidando ogni ulteriore discorso con la frase “I don’t build in order to have clients, I have clients in order to build”. A dargli fiducia è un anziano progettista, Henry Cameron, in cui è riverberata la figura di Louis Sullivan, tra i padri del Movimento Moderno negli Usa, ritenuto il primo progettista di grattacieli nonché mentore di Wright.

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Nel film c’è una scena che chiarisce in modo cristallino il suo sentire progettuale: Cameron è colto da un malore e Roark lo accompagna in un’ambulanza dal cui interno scorrono immagini di una serie di grattacieli. L’anziano ne parla come della più grande invenzione strutturale dell’uomo ma, aggiunge, “loro li hanno fatti somigliare a dei templi greci, cattedrali gotiche e incroci di qualsiasi stile antico siano riusciti a immaginare. Io gliel’ho detto che la forma di un palazzo deve seguire la sua funzione. Che nuovi materiali devono portare nuove forme. Che nuovi edifici non possono prendere in prestito forme usate altrove, proprio come un uomo non può prendere in prestito l’anima altrui”. Seguendo questi precetti Roark si eleva a pioniere, autoinvestendosi del compito di spostare ogni volta più in là la frontiera del ‘progettualmente noto’, del riconoscibile e perciò dell’accettabile.

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Finalmente l’uomo riesce a trovare qualcuno disposto a scommettere su di lui, affidandogli lo sviluppo di un palazzo senza modificarlo in alcun modo. La sua apparizione è spiazzante, un puro volume senza fronzoli: nessun timpano, né frontoni o colonne. All’interno, quello che ci si aspetta da un’abitazione modernista: grandi vetrate, una scenografica scala curva e quell’andamento orizzontale che l’architetto definiva “snellezza”. Una delle partecipanti all’inaugurazione dice che è un risultato sorprendente, ma che non potrebbe viverci perché non riuscirebbe a rilassarsi, a sentirsi a casa.

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Una dichiarazione che rispecchia perfettamente ciò che Rand scriveva a Wright in forma di complimento: “ogni volta che entro in un suo edificio sento di essere in un luogo in cui è impossibile rilassarsi, rilassarsi come la maggior parte delle persone fanno nella vita divenendo piccole, indolenti, mediocri e comodamente insignificanti”. Segue un dialogo fra Howard e Dominique, la donna forte, libera, indipendente, che non si era mai innamorata prima di conoscere il Genio, felice di preservare la sua indipendenza, e che tuttavia, dinanzi a quel modello di coerenza fin masochistica, non può che piegarsi, chiedendogli di rinunciare al suo sogno di rivoluzionare l’architettura per trasferirsi in una piccola città e prendere una casa che lei si offre di curare, cucinando per lui, lavandogli i vestiti, spazzando il pavimento...

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Un cedimento senza condizioni che oggi fa quasi sorridere di imbarazzo. Alla fine Roark, dopo aver fatto saltare in aria un progetto di residenze sociali da lui ideato e poi modificato a sua insaputa, dopo essersi autodifeso in tribunale e aver convinto la giuria ad assolverlo in nome di una libertà d’espressione, anche architettonica, senza compromessi, firmerà il grattacielo ‘definitivo’ per il magnate Gail Wynand, a cui aveva già regalato il prospetto di una residenza probabilmente ispirata a quella Casa Robie firmata a Chicago dal ‘vero’ Wright: un lotto allungato connotato da piani sovrapposti.

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La fonte meravigliosa

Sarà il più alto palazzo al mondo, tutto in vetro e acciaio, come sottolineato dal cartello posto alla base del cantiere, la cui statura è accentuata in modo vertiginoso da una ripresa dal basso. Dominique si precipita a raggiungere il suo amato servendosi del montacarichi, in un viaggio verso la cima che sembra infinito. La donna guarda verso l’alto e vede Howard sovrastare l’edificio. Le sue proporzioni sono epiche, enfatizzate dalla musica di Max Steiner; la macchina da presa, simulando il movimento dell’ascensore, si approssima all’architetto che aspetta di essere raggiunto sulla cima della sua creazione, con le mani sui fianchi, la sagoma stagliata contro il cielo. Il pioniere superuomo ha terminato la sua trasformazione in Dio.

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Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina La fonte meravigliosa

La fonte meravigliosa

Drammatico - USA 1949 - durata 108’

Titolo originale: The Fountainhead

Regia: King Vidor

Con Gary Cooper, Patricia Neal, Raymond Massey, Kent Smith, Robert Douglas, Henry Hull