La maggior parte delle settimane, questa rubrica di belle serie inedite – che abbiamo scoperto poter attingere da ogni quando nella storia della tv – potrebbe essere riassunta con il celebre meme di Jackie Chan che non crede ai suoi occhi ed è a un passo dalla faccia basita. La domanda, infatti, è spesso la stessa: perché diamine queste serie così saporite non arrivano in Italia? A volte esistono risposte più o meno tangenti, ma quasi sempre vince il meme di Jackie Chan: non si sa, alziamo le mani. Come direbbe Madonna: sono spiacente. Blackadder, che è la serie tv più importante e più intelligente che troverete mai su queste pagine, non è mai stata distribuita sul mercato italiano; ma questa volta, paradossalmente, Jackie Chan va tenuto nel taschino.
Nessun dirigente televisivo sano di mente – specialmente nel 1983 – avrebbe mai rischiato il posto e il vitalizio di cocaina per accollarsi i diritti di distribuzione per una sitcom inglese in costume di ambientazione medievale creata da un regista/sceneggiatore e da un comico/autore poco più che esordienti. Ed è giusto così, senza polemica e senza senno del poi: sulla carta, una sitcom del genere è poco potabile per un pubblico non inglese. Innanzitutto si parla di un adattamento e di un doppiaggio oggettivamente ostici. E poi Blackadder è una reinterpretazione comica e parodica della Storia, quella con la S maiuscola, considerata troppo brillante per chi (pensa il dirigente) solitamente guarda le sitcom; e realizzata con un linguaggio di genere troppo basso per chi invece avrebbe i mezzi (sempre secondo il dirigente) per cogliere le parafrasi burlesche di alcuni brani di Shakespeare. Tutto vero, tutto troppo difficile per le nostre piccole menti di spettatori tv. Sulla carta.
Poi però la devi anche guardare Blackadder. Ed è lì che tante delle tue scuse da pigro dirigente tv saltano, visto che è impossibile non cogliere il sublime che emana da due studenti di Oxford che hanno deciso di abbracciare la stupidità della condizione umana – senza perdere il sale in zucca che la passata esperienza da privilegiato consapevole ha permesso loro di incamerare. I due giovani autori di Blackadder, infatti, si chiamano Richard Curtis – sceneggiatore di Quattro matrimoni e un funerale, Notting Hill, Il diario di Bridget Jones e anche regista di Love Actually – e Rowan Atkinson, l’uomo successivamente noto come Mr. Bean. All’esordio come showrunner di una serie tutta loro, Curtis e Atkinson sottopongono la sitcom allo stesso trattamento riservato dai Monty Python al formato degli sketch show, trasformando un genere popolare e da avanspettacolo nel più eccellente esempio di satira in circolazione.
Nel folgorante pilota della serie – il primo di 24 episodi divisi in quattro stagioni ambientate (con la stessa coppia di protagonisti) in altrettante epoche diverse, alla faccia del Dottore – un rapido prologo infarina sul contesto storico: Inghilterra della fine del 400, gli York si difendono dall’assalto dei Tudor alla corona di regnanti. La Storia ufficiale racconta che fu Enrico Tudor a uccidere in battaglia re Riccardo III, ma essa dice il falso – proprio come quel buzzurro cracoviano di Copernico e le sue bislacche fanfaluche sull’eliocentrismo. Riccardo vinse quella battaglia a Bosworth Field, ma fu decapitato per errore da quel povero mentecatto di Edmund, negletto (qualcuno ha detto Edna?) secondogenito di suo fratello minore.
Edmund è un piccolo uomo, tanto limitato quanto ambizioso e convinto che la vita gli debba ogni cosa che desidera per meriti non meglio specificati. Piuttosto che portarlo a miglior consiglio, l’ilare regicidio di cui si è macchiato diventa invece la scintilla che fa nascere Edmund, The Black Adder (la vipera nera), machiavellico genio della politica che raggiungerà a ogni costo la vetta della catena alimentare. O almeno, così è come si vede lui. Nonostante il nuovo taglio di capelli a scodella e un inedito dress code total black da antieroe, Edmund la vipera nera rimane il beota babbeo di sempre, uno il cui carisma può attirare a sé solo un babbeo beota più grande di lui, in questo caso lo scudiero Baldrick.
Curtis e Atkinson riscrivono la Storia inglese con il preciso scopo di fare i buffoni, certamente, ma anche con quello un po’ più nascosto di fare la pupù in testa a tutti i loro ex compagni di scuola. Ovvero quella futura classe dirigente (generalizzando ampiamente) che si è messa di traverso al progresso formando una diga reazionaria cementata con il privilegio che vorrebbero a tutti i costi mantenere. Atkinson incarna alla perfezione l’archetipo grottesco – lo stesso che, ridotto al minimo, ritorna in Mr. Bean – dell’inglese colonialista che si sente al di sopra degli altri per diritto divino nonostante una patente inettitudine, che quando viene contestata si trasforma in crudeltà. Sono le stesse persone che tirano le fila del paese dall’alba dei tempi moderni, e sono talmente impunite che probabilmente non si sono nemmeno accorte che Blackadder, sotto sotto ma nemmeno troppo, parla proprio di loro.
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