Premesso che in ogni caso il talento, la genetica, il modo di porsi, la disciplina e l’etica del lavoro siano indispensabili, se c’è una faccenda che mi sembra chiara in tutti questi anni passati a osservare l’industria dell’intrattenimento è che un/a professionista arriva a eccellere nel proprio ambito soprattutto quando si trova al momento giusto, nel posto giusto, nelle condizioni giuste, in rappresentanza dell’epoca giusta e attorniata dalla gente che li supporta come si deve. L’equazione che ne consegue è piuttosto semplice: sai che qualcuno o qualcuna è veramente bravə quando fa successo nel momento sbagliato. Pio e Amedeo? Bravi e belli, per carità, soprattutto se siete le loro zie; ma soprattutto abili a sfruttare il momento e l’ambiente giusti. Sarah Silverman, invece, è venuta fuori nel momento sbagliato – inizio anni 90, troppo tardi per accodarsi alle pioniere (Lucille Ball, Carol Burnett, Joan Rivers) e troppo presto per cavalcare la recente onda di popolarità della stand-up per lanciarsi la carriera – e in un clima in cui non sarebbe mai stata la reginetta dello zeitgeist.

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Sarah Silverman

Pur crescendo professionalmente con la stand-up, Silverman ha iniziato la carriera cercando di farsi un nome in tv (compresa un’infelice avventura al Saturday Night Live) e come attrice (negli ultimi anni l’avete vista in I Smile BackLa battaglia dei sessi e Maestro), faticando a crearsi un personaggio di largo successo pop, ma sempre restando fedele alla propria identità di comica che dice cose che una persona con una faccia così non dovrebbe dire. Non so se mi spiego. È come quando vedete qualcuno e pensate che è impossibile sia alto più di 1 e 70 con quella faccia lì così corta e imberbe e poi si alza ed è un gigante: allo stesso modo Silverman ha colto fin da subito il potenziale comico nell’attrito tra le sue fattezze gentili e le volgarità che riesce a far a uscire da quella bocca e con quella voce – non a caso è stata chiamata a doppiare la co-protagonista di Ralph Spaccatutto.

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Ralph Spaccatutto (2012) scena

Man mano che la sua presa sulla maniglia comica si faceva più ferma con l’esperienza, inoltre, Silverman ha imparato a calibrare questo meccanismo – in cui sfrutta la malizia degli stereotipi negli occhi altrui, fondamentalmente una versione più dolce della celebre massima di Wanna Marchi – e a modularlo in maniera diversa, sempre alla ricerca di una provocazione stimolante e di rado fine a se stessa.

Noi che facciamo le cose per bene e non andiamo a pesca di problemi con la guardia di finanza, l’apice (al momento) della parabola artistica di Silverman lo possiamo ammirare nell’ultimo speciale comico che ha caricato su Netflix, A Speck of Dust, che mette in mostra tutto il suo repertorio seguendone il percorso evolutivo.

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Sarah Silverman: A Speck of Dust

Ne esce il ritratto di una comica che ha cominciato dicendo cose troppo volgari e sessualmente esplicite per una donzella; poi è passata a tormentare i reazionari, conscia che i loro nervi (compresi quelli di Trump) e il loro orgoglio non avrebbero retto al confronto con una umorista (sempre donna, sempre bella e sempre ragionevolmente giovane) disposta a difendere le proprie opinioni anche utilizzando una satira pungente. Il punto d’arrivo è una comica in grado di scrivere una battuta che sembra raccontare lo stupro subito dalla sorella ai tempi dell’università e invece si conclude con una punchline extra-scatologica che prende alla sprovvista e, come per l’appunto urla Wanna Marchi, la mette in quel posto a tutti quei cocomeri che pensavano di poterla rinchiudere nella scatoletta delle loro aspettative. In sostanza, Silverman è sempre stata una comica con la missione di smontare ciò che lo sguardo maschile proietta (e impone) per rappresentare l’immaginario femminile.

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Sarah Silverman: A Speck of Dust

Silverman, poi, viene da quella scuola di stand-up newyorchese (da Seinfeld in su) fatta di acuta comicità d’osservazione – che le permette di variare scrivendo un bit su quei cocainomani degli scoiattoli che accumulano come degli ossessi noci che poi si dimenticano di avere – e forte della consapevolezza di avere di fronte un pubblico scafato, in grado di apprezzare meta-battute sulle tecniche di comicità che sta utilizzando. Nello stesso bit, per esempio, riesce prima a smontare gli archetipi anatomici irrealizzabili con cui Barbie ha contribuito a deprimere generazioni di piccole bambine che non avevano le gambe lunghe un metro e mezzo e i capezzoli invisibili; e poi a vantarsi di avere anche lei le labbra di Angelina Jolie che in tante sognano, solo che nel suo caso sono quelle vaginali.

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Sarah Silverman: A Speck of Dust

Poi si immagina di essere la persona che fa i discorsi ai funerali dei feti abortiti che in certe parti degli Stati Uniti sono obbligatori e a carico della famiglia: “È morto come è vissuto. Lo facciamo ritornare alla terra, dove presumibilmente verrà mangiato da un grillo”. E se vogliamo che l’algoritmo benedetto che domina l’internet italiano continui a vederci di buon occhio, meglio accennare in maniera più vaga possibile all’incredibile bit finale, che va a toccare l’argomento religione con una barzelletta che farebbe arrossire una friulana e un veneto atei in trasferta in Toscana per la sagra del moccolo acrobatico.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.