«Evidentemente, dottore, lei non è mai stato una ragazzina di 13 anni» era la frase con cui nell’incipit di Il giardino delle vergini suicide la più giovane delle sorelle Lisbon, Cecilia, gelava il paternalismo di un medico ignaro. Per chi invece lo è stata, una ragazzina di 13 anni, o di 14, come la Reena Virk di Under the Bridge, la visione di questa miniserie può risvegliare sentimenti contrastanti, e terrificanti, di identificazione e insieme orrore, di empatia e di disagio, rifiuto. La storia è vera, come onda true crime vuole, e comincia nel 1997: Reena Virk è una teenager canadese, figlia di genitori emigrati dall’India, testimoni di Geova e per questo più che mai rigidi; bullizzata dai coetanei per il suo aspetto, farebbe qualsiasi cosa per entrare nelle CMC, la cricca capitanata dalla carismatica Jo, che vive in una casa famiglia e per questo sembra godere di una libertà senza pari, ed è ossessionata come lei da Tupac e Notorious B.I.G., ma anche dagli scontri tra gang e dalla criminalità organizzata (CMC sta per “Crip Mafia Cartel”, il suo idolo è John Gotti, stringe patti di sangue giurando «omertà »).
Una notte Reena scompare, e dopo una settimana il suo corpo riemerge, massacrato, dalle acque del lago di Victoria, British Columbia. A Under the Bridge non interessa tenerci troppo a lungo in attesa della verità, come spesso fanno altri racconti simili, perché la verità è già quella insieme più ovvia e più incredibile possibile: Reena è stata uccisa da ragazzine e ragazzini come lei, che riteneva amici. Il come che la serie indaga, dunque, non è lo svolgersi procedurale dei fatti che tanto appassiona il true crime, ma scorre a un livello più profondo, in un’intersezione tra cause, conseguenze e accidenti, tra il sovrapporsi di istanze sociali e la temibile e angosciante volatilità dell’età più inquieta di tutte.
Insieme filo conduttore e cornice narrativa, la maggiore concessione alla fiction (ché i dettagli del caso di cronaca, controllate pure, sono tutti orribilmente corretti) è la relazione tra un’agente della polizia locale, Cam (Lily Gladstone, ancora una volta capace di convocare una gamma sconfinata e complessa di sentimenti in poche battute, negli sguardi e nei silenzi), e una giornalista appena tornata a casa dopo anni a New York, Rebecca (Riley Keough, convincente nel ritratto di eterna adolescente, bloccata in un trauma mai sanato); quest’ultima sarebbe Rebecca Godfrey, l’autrice del romanzo non fiction da cui Under the Bridge è tratta («e così pensi di star scrivendo A sangue freddo, eh?» la sfotte Cam), che però nella realtà scrisse solo anni dopo, e senza mai esser coinvolta direttamente nei fatti.
Personaggi che aprono interessanti deviazioni sull’etica delle rispettive professioni, sul limite del punto di vista, nel caso di Cam/Gladstone anche sul lato oscuro del sistema di assistenza sociale ai minori in relazione alle persone indigene. Ma il cuore nero e il punto di Under the Bridge sono tutti per i suoi giovani protagonisti (strepitoso il casting), nel modo in cui sa mettersi alla loro altezza, fotografarne l’esistenza di supremo terrore e spietata crudeltà, e rivelando per contrasto il buio in cui brancolano gli adulti, incapaci di (o disinteressati a) vedere. Figuriamoci a capire.
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Under the Bridge
Poliziesco - USA 2024 - durata 47’
Titolo originale: Under the Bridge
Creato da: Quinn Shephard
Con Lily Gladstone, Terry Chen, M.J. Kokolis, Daniel Diemer, Vritika Gupta, Archie Panjabi
in streaming: su Disney Plus
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