Premiato al 54° Festival di Cannes con il Grand prix speciale della giuria e per la miglior interpretazione femminile (Isabelle Huppert) e maschile (Benoît Magimel), La pianista è il sesto film per il cinema diretto da Michael Haneke, ed è pure uno dei più belli. È tratto dal romanzo omonimo (1983) di Elfriede Jelinek, austriaca anche lei, come il regista, e premio Nobel per la letteratura nel 2004, forse anche per il successo riconquistato dal libro grazie al film.
Come nell’opera di Jelinek, che preparò anche il soggetto, la protagonista in un certo senso ha tre vite, vale a dire troppe, o nessuna, perché ciascuna è anche, al tempo stesso, una forma terribile di scollamento e inappartenenza alla vita. È un paradosso, come quando si pensa al ghiaccio bollente, qui interpretato dal volto così espressivamente inespressivo di Huppert; ma il fatto è che tutto, sia nel destino sia nel carattere di Erika, la pianista, sembra funzionare per effetti contrari, persino per antifrasi.
La prima vita è quella passata insegnando piano al conservatorio di Vienna, infliggendo ad allieve e allievi umiliazioni e sofferenza, perché il modo in cui la protagonista, bravissima, vive la musica rappresenta anche una dimensione emotiva attraversata da ambivalenze così incontenibile da richiedere un’istanza assoluta di controllo e repressione. Come se riuscissimo a vedere e sentire un grido silenziato, questa autodisciplina è però smentita dall’immagine ricorrente degli occhi velati di lacrime, su un corpo per il resto impassibile.
La musica, dunque, come metafora di solitudine e malattia. Del resto siamo nella capitale mitteleuropea dei concerti, a Vienna, anche se il film è girato in francese, favorendo il senso di uno straniamento anche linguistico. E vale la pena di ricordare che il romanzo uscì nel 1983, il medesimo anno di un altro capolavoro scritto a Vienna, intorno all’esistenza sofferente dei pianisti: Il soccombente di Thomas Bernhard.
Come la prima, anche la seconda vita è una specie di stanza della tortura, e forse la matrice di tutte le altre sofferenze, perché riguarda la relazione morbosa di Erika con la madre (Annie Girardot). Il film comincia con la protagonista che rientra a casa, e viene subito rimproverata da una madre despota, che le strappa l’abito a fiori appena comprato. Il vestito, che nei film come nei libri o nelle fiabe è il simbolo più forte della relazione problematica tra madri e figlie.
E poi c’è il terzo livello: quello della vita sessuale, abitata da morbosità voyeuristiche, fantasie sadomasochistiche, deliri di autodistruzione e violenza. Un sistema che esplode quando Erika incontra l’Altro, vale a dire Walter, il giovane che si innamora di lei e vorrebbe stanarla dalla sua patologia, ma rischia di soccombere lui stesso e dunque la lascia.
L’opera di Haneke crea il senso di una narrazione che scorre in maniera impersonale e metaindividuale, come accadeva anche nel romanzo; le scene, la fotografia ci rimandano il sentimento filmico di una quotidianità ripetitiva, silenziosissima, eppure carica di violenza. La pianista, per esempio, è un film pieno di porte e di ascensori, da cui la protagonista entra, esce, guarda il mondo oltre le finestre come le donne sconosciute degli interni dipinti a fine Ottocento da Hammershøi. Sopraffatta da tutto, in un finale straordinario per potenza formale, alla pianista, rimasta sola, come sempre, non resta che uscire, attraverso una porta, sfilandosi dall’ultima inquadratura, come un essere indesiderato bruciante di desiderio.
Il film
La pianista
Drammatico - Austria/Francia 2001 - durata 130’
Titolo originale: La pianiste
Regia: Michael Haneke
Con Isabelle Huppert, Annie Girardot, Benoît Magimel, Susanne Lothar
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta