Uno pensa al mondo dello spettacolo, dell’intrattenimento, dei frizzi e dei lazzi, del cinema ma anche della televisione e pensa subito a Hollywood e agli Stati Uniti d’America – se è Kanye West o qualche altro fenomeno con un serio problema di antisemitismo, poi, c’è la possibilità che stia pensando anche a qualcun altro di ancora più specifico e non è il caso di approfondire. Il pensiero va subito alle stelle e strisce perché negli ultimi cento anni gli yankee hanno monopolizzato tutto ciò che riguarda il mondo dello spettacolo – comprese tutte le sottocategorie che possono stare insieme alla parola “spettacolo” separate solo da un trattino: sport, informazione, talk show politico – e l’hanno trasformato in qualcosa di più grande, di più figo, esagerato e cool. Senza offesa, ma a vedere il varietà in prima serata di un sabato qualunque di una qualsiasi tv nazionale al di fuori degli Stati Uniti, la trasmissione di un qualsiasi evento sportivo, ma anche uno show pomeridiano infra-settimanale a chiunque viene da pensare: perché sembriamo così sfigati al confronto con la tv americana?
Eppure, gli amici al di là dell’oceano non si sono inventati praticamente niente. Il televisore, come elettrodomestico, è stato approntato da un gran numero di scienziati (specialmente europei) con il supporto industriale, tra gli altri, dei tedeschi della Siemens. Una volta pronto l’hardware del nuovo medium, è stata la BBC a creare i primi contenuti e i primi linguaggi televisivi, fra cui spicca quello della sitcom. Gli statunitensi, esattamente come il loro totem Steve Jobs, non hanno creato fondamentalmente nulla, ma hanno assimilato, trasformato, gonfiato e reso migliore ciò che c’era già. Hanno preso il linguaggio tv e l’hanno reso proprio, spingendo il resto del mondo a inseguire tentando di raggiungere lo stesso livello.
Ho scritto “praticamente nulla” perché in realtà c’è qualcosa che gli USA hanno ideato tutti da soli per il linguaggio televisivo, senza l’aiuto degli zii britannici. Un genere fondamentale per il piccolo schermo statunitense, ma che non è riuscito ad avere lo stesso successo (con lo stesso format) anche nel resto del mondo, rimanendo una faccenda ontologicamente americana come il tacchino ripieno, il sistema sanitario crudele e il genocidio dei nativi.
Parliamo dei late-night talk show, programmi di intrattenimento solitamente in diretta e in seconda serata, in cui comici vestiti di tutto punto aprono il loro salotto televisivo a ospiti di varia foggia desiderosi di sponsorizzare qualcosa, musicisti con album in uscita e una magnifica accozzaglia di varie ed eventuali, tormentoni o contenuti pre-registrati per arrivare a riempire un’ora di televisione. Johnny Carson (da cui deriva quel “Here’s Johnny” detto da Jack Nicholson in Shining), David Letterman, Ed Sullivan, Steve Allen, Jay Leno, Conan O’Brien, John Stewart, Stephen Colbert, Jimmy Fallon, Craig Ferguson, Seth Meyers, John Oliver: sono tutti nomi che hanno contribuito a scrivere questa storia peculiare della tv USA, costruendo da zero un genere che oggi rimane una delle americanate più irripetibili per noi che non abbiamo lo stesso senso dello spettacolo – diciamo così.
In questo humus incredibilmente fertile e particolare del late-night talk show si è inserito, a sorpresa e non annunciato, quel gran genio di John Mulaney, comico di stand-up e autore televisivo che, grazie ai finanziamenti a fondo perduto di Netflix, non è estraneo a sperimentazioni tv in direzioni bizzarre (come il suo speciale comico-musicale per bambini John Mulaney & the Sack Lunch Bunch). John Mulaney Presents: Everybody’s in L.A. è stato un evento trasmesso in diretta in sei serate comprese tra il 3 e il 10 maggio 2024 che spiccava nel palinsesto di Netflix come un brufolo gigante sulla fronte di un adolescente: Netflix non fa televisione in diretta – o meglio, la fa: ma solo quando si tratta di grandi eventi dall’enorme ritorno pubblicitario, non quando si parla di imitare il palinsesto di un’emittente tv classica – e di conseguenza non fa late-night talk show. Per Mulaney, però, si può fare un’eccezione. Anche quando ti propone qualcosa di totalmente eccentrico, come un late-night a tema: sei puntate interamente dedicate a Los Angeles, realizzate con una marea di ospiti incredibili (solo nel primo episodio appare Jerry Seinfeld, solitamente allergico a certe ospitate) sfruttando l’occasione di un festival comico (organizzato sempre da Netflix) che si teneva quella stessa settimana nella metropoli californiana.
Quella di Los Angeles è chiaramente una scusa che John Mulaney coglie al volo per creare un varietà nostalgico – la palette di colori e le scelte grafiche rimandano agli anni 70 – come pretesto brillante per poter improvvisare comicamente a partire da una struttura lassa che omaggia quella propria del genere, immutata dall’alba dei tempi: monologo di apertura, spalla comica fissa e defilata (in questo caso lo splendido Richard Kind), ospiti divanati a rotazione, folli collegamenti in diretta dalle colline di Hollywood in attesa della comparsa di un coyote, interazione con il pubblico in studio e sketch pre-registrati.
La cosa meravigliosa è che Mulaney si dimostra in grado di esaltare questo linguaggio così specifico della tv statunitense – che per il pubblico di quelle parti è ormai diventato un automatismo – riuscendo a piegarlo alle proprie qualità comiche di osservatore e improvvisatore. John Mulaney Presents: Everybody’s in L.A, nasce come un omaggio alla pietra miliare del piccolo schermo USA, come marchetta sotterranea alle attività extra-curriculari di Netflix e come riempitivo (lo fa giustamente notare Seinfeld), ma in buona sostanza viene modellato da Mulaney come se fosse uno speciale comico diffuso, meno denso rispetto alla stand-up cui siamo abituati ma non meno divertente e coeso del precedente Baby J.
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