Festival di Cannes 2024
Il TotoPalma di Film Tv
Andrea Bellavita
Vorrei: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Vincerà: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Eddie Bertozzi
Vorrei: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Vincerà: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Pietro Bianchi
Vorrei: Caught by the Tides di Jia Zhangke
Vincerà: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Massimo Causo
Vorrei: Megalopolis di Francis Ford Coppola
Vincerà: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Adriano De Grandis
Vorrei: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Vincerà: All We Imagine as Light di Payal Kapadia
Simone Emiliani
Vorrei: Bird di Andrea Arnold
Vincerà: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Ilaria Feole
Vorrei: Bird di Andrea Arnold
Vincerà: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Marco Grosoli
Vorrei: Grand Tour di Miguel Gomes
Vincerà: Anora di Sean Baker
Roberto Manassero
Vorrei: Anora di Sean Baker
Vincerà: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Emanuela Martini
Vorrei: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Vincerà: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Giona A. Nazzaro
Vorrei: The Shrouds di David Cronenberg
Vincerà: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Luca Pacilio
Vorrei: Bird di Andrea Arnold
Vincerà: Bird di Andrea Arnold
Emanuele Sacchi
Vorrei: Megalopolis di Francis Ford Coppola
Vincerà: Emilia Pérez di Jacques Audiard
Giulio Sangiorgio
Vorrei: Megalopolis di Francis Ford Coppola
Vincerà: The Seed of the Sacred Fig di Mohammad Rasoulof
Le recensioni dei film in concorso
15 maggio
Diamant brut
di Agathe Riedinger
Liane ha 19 anni, vive con la madre e la sorellina a Frejus, in Costa Azzurra, e ha un’ossessione: non i soldi, che mancano sempre, ma la sua bellezza da promuovere in rete, con video e foto da migliaia di follower. Liane (Malou Khebizi), già protagonista di un corto dell’esordiente Agathe Riedinger, J’attends Jupiter, di cui Diamant brut è un’estensione, potrebbe essere una nuova Rosetta, è ugualmente disperata e senza un posto nel mondo, se non nell’universo astratto dei social e del reality show per il quale si sottopone a un provino. Riedinger non ha però un’idea di stile, accumula situazioni tra crudo realismo, sprazzi lirici ed estetizzazioni da videoclip, e lascia purtroppo sullo sfondo la cosa più interessante del film: la desessualizzazione di Liane, la solitudine di un corpo agghindato, esposto, eventualmente artefatto, per soddisfare un desiderio che termina con un commento, e ricomincia con quello successivo.
Roberto Manassero, voto: 6
The Girl with the Needle
di Magnus Von Horn
Nella Copenaghen del primo dopoguerra, Karoline perde, nell’ordine: il marito; la casa; la chance di una vita migliore quando il suo capo la seduce e poi l’abbandona, incinta. L’incontro con una sedicente intermediaria nell’affido di neonati sembra aiutarla, ma è l’inizio di un incubo ancor più nero, ispirato a un vero fatto di cronaca dell’epoca. L’opera terza dello svedese Von Horn, già autore del pungente ritratto al femminile nell’era dei social Sweat, mette in campo un primo atto potente nel tratteggiare un profilo di donna (apparentemente) anaffettiva e respingente. Man mano, però, che si scivola in territori prossimi al genere, il compiacimento nell’inserire momenti shock è evidente, così come le citazioni, al contempo ovvie e fuori luogo (da Elephant Man al Freaks di Browning); il bianco e nero contrastato esalta la sporcizia dei luoghi e delle anime, ma dietro la bicromia il film ha poco da dire.
Ilaria Feole, voto: 4
16 maggio
Megalopolis
di Francis Ford Coppola
La storia è da rinvenire in una assurda bolgia di segni: un Romeo e una Giulietta divisi dalla politica, un urbanista che sogna un’utopia, una saga familiare esagerata verso il ridicolo. E poi spettri di opere passate in autoparodia, un museo di simboli ritrovati (la città di Un sogno lungo un giorno, le rose di Un’altra giovinezza), traiettorie narrative riprese ed esasperate (Il padrino e Segreti di famiglia fatti soap caricaturale), lacerti autobiografici che si reinventano... È come se Coppola - come in Un’altra giovinezza e Twixt - volesse costruire un tempo (un luogo, un film) in cui tutto può farsi presente, ritornare, esistere ancora. E forse cambiare, per la durata del film. Un tempo post-tutto, che è ontologicamente proprio del presente dittatoriale del digitale e che guarda con fede verso l’AI (il Megalon, sostanza di cui sono fatti i sogni urbanistici del protagonista è in grado anche di curare i corpi), un tempo in cui la cultura classica (i nomi? Catilina, Cicerone, Clodio...) si ripresenta tra forme triviali da tv trash (solo Francesco Vezzoli, Michael Almereyda e le Wachowski han saputo osare tanto), la satira del populismo e le ambiguità megalomani del capitalismo si muovono insieme, e il gioco del cinema (una sarabanda sfrenata, formalmente inventiva, infantile, kitsch, meliesiana) cura e rilancia la vita, si riconfronta con le colpe del passato (l’ossessione per l’incidente del figlio, qui la madre) e, soprattutto, aiuta ad allontanare la morte. È un film in cui c’è tutto, c’è troppo, ma soprattutto c’è l’essenza, lo scopo primitivo di quella cieca utopia, di quel tempo finalmente sospeso, di quella smania vampiresca che chiamiamo cinema. 0 o10. Prendere o lasciare. Secondo voi?
Giulio Sangiorgio, voto: 10
Bird
di Andrea Arnold
Nella periferia inglese dove genitori troppo giovani crescono figli troppo responsabili, la dodicenne Bailey entra nella pubertà con rabbia e curiosità: col telefono filma la dolcezza della natura e le asperità di adulti immaturi e smarriti. E a entrambi offre un’empatia che è la chiave di lettura di questo film magnifico, con cui Arnold torna alle adolescenze liriche e furiose di Fish Tank e Wuthering Heights, ma fondendole, con grazia inaudita, al discorso antispecista dichiarato dal doc Cow. Trovando nel realismo magico (“is it too real for ya?” cantano i Fontaines, e tutti con loro, sui titoli di coda) la via per dire che siamo tutti animali (qui i personaggi si chiamano Bug, Bird, Moon, Hunter), tutti parte di famiglie putative che coi legami di sangue hanno poco a che fare. Esordienti giovanissimi e luminosi accanto a un Barry Keoghan esplosivo e a un Franz Rogowski animalier: la nostra Palma, oggi.
Ilaria Feole, voto: 8
17 maggio
Three Kilometres to the End of the World
di Emanuel Parvu
I tre chilometri dalla fine del mondo del titolo sono quelli che separano una remota isola sul Danubio dalla terraferma, che per i suoi abitanti è il simbolo di tutto ciò che interferisce con la loro presunta purezza: la grande città, i turisti, la libertà sessuale, addirittura la legge. Il ritorno per le vacanze estive del figlio diciassettenne di una famiglia di pescatori scatena il putiferio: picchiato perché sorpreso a baciarsi con un turista, prima il ragazzo viene aiutato dal padre e dalla polizia locale a individuare i responsabili, poi legato ed esorcizzato perché gay, sequestrato e infine costretto a ritrattare. E tutto per salvare la faccia e lasciare intatto un mondo già di per sé immobile. Ma che Parvu voglia fare Mungiu è avvilente, più che scontato, visto che il suo film è un bigino di cinema rumeno contemporaneo, con tutti gli elementi del caso (formato largo, piani sequenza, meccanismi dialettici che si trasformano in paradossi) e nessuna forza.
Roberto Manassero, voto: 5
Kinds of Kindness
di Yorgos Lanthimos
Tre capitoli: un succube che regola la propria esistenza degli ordini del ricco amante-Master, un poliziotto che non vuole riconoscere la moglie revenant dopo un naufragio, una setta che cerca gemelle (una viva e una morta) per resuscitare cadaveri. A collegarli lo stesso cast di attori, omicidi, sangue, sesso, interni ed esterni di ville, sarcasmo. Senza un’idea sufficiente per un lungo, Lanthimos arrabatta tre episodi di una miniserie fantastic-noir (suggestiva l’idea del primo, totalmente pretestuoso l’ultimo) per essere ancora a un Festival, épater les bourgeois, monetizzare lo status di Autore. Il cinema come self-marketing, puro mantenimento dell’hype, totale disinteresse per lo spettatore. Mentre i vecchi (Coppola, Schrader) continuano ostinati a ragionare sullo statuto del cinema, il divo arretra su rimandi, ripetizioni, running gag, sorprese a cui si fatica a credere. Cose poverette.
Andrea Bellavita, voto: 4
Oh, Canada
di Paul Schrader
Da Russell Banks (I tradimenti) - a cui il film è dedicato e che Schrader aveva già adattato in Affliction - un’opera da (video)camera: quella che inquadra, a domicilio, un documentarista Usa emigrato in Canada (Gere), chiamato da un suo studente a ripercorrere la propria carriera prima che una malattia termini di consumarlo. L’allievo sceglie un dispositivo prossimo all’Interrotron di Errol Morris: di fronte all’intervistato dovrebbe esserci lo sguardo in video del regista, ma il maestro chiede sia quello della moglie (Thurman). Non è un memoriale: è una confessione (che separa artista e opera). I ricordi si allargano e si stringono nel formato, confondono tempi, colori e interpreti (in un impossibile Resnais tra il naïf e il bressionano). Il racconto è inaffidabile, sformato dalla colpa, deformato dai farmaci: ma è quella - lì, ora - l’unica possibile verità. Un sentimento, privo di catarsi e dati certi. Il resto - per Schrader - è pornografia del reale.
Giulio Sangiorgio, voto: 7
18 maggio
Caught by the Tides
di Jia Zhang-ke
Se Coppola inserisce i dati del proprio cinema elaborandoli come una AI fuori controllo e se Schrader separa la verità dell’artista dal senso autonomo dell’opera, Jia lavora sulla propria memoria in un found footage spettrale e sentimentale: riprende e rilavora scarti e scene (soprattutto di canto e ballo: un musical) dei suoi film con protagonista la moglie Zhao Tao, facendo di quel corpo che si muove nel proprio cinema passato (in ruoli e situazioni naturalmente differenti) un unico personaggio, protagonista di una storia d’amore con un uomo che, a un tratto, scompare (come nella filmografia del regista succede all’attore). Un amore attraverso il tempo che (come prima e più di prima) documenta i cambiamenti della Cina contemporanea: quando i due si ritrovano, nelle scene inedite, è tempo di COVID, mascherine, igiene coatta, poco contatto. Anche le immagini sono cambiate: c’è Tik Tok. Un’opera ostica, radicale, geniale, insieme già vista e sicuramente mai vista.
Giulio Sangiorgio, voto: 8
Emilia Pérez
di Jacques Audiard
Nessuno, oggi, fonde gangster e mélo con la grazia di Audiard, le cui epopee criminali sono anche inni alla diversità e all’integrazione (Sulle mie labbra, Dheepan), racconti di (de)formazione (Il profeta) o entrambi (Un sapore di ruggine e ossa): Emilia Pérez è il trionfo di un autore che sa quanto il cinema di genere e le istanze identitarie possano esaltarsi a vicenda, se trattati con coraggio e una visione. E allora ecco un musical sfrenato e languido, ironico e sensuale, su una talentuosa avvocata e su un boss del cartello messicano che la ingaggia per occuparsi del suo agognato cambiamento di sesso. Lo spietato Manitas diventa la generosa Emilia, donna e dunque sorella, complice, portatrice di uno sguardo rivoluzionario. Un trio di interpreti magnifiche (Zoe Saldana, Karla Sofia Gascón, Selena Gomez), costumi firmati Saint Laurent (che produce), brani accattivanti e un’anima queer travolgente, commovente, necessaria.
Ilaria Feole, voto: 8
19 maggio
Limonov - The Ballad
di Kirill Serebrennikov
Raccontando la vita di Eduard Limonov (1943-2020), poeta sovietico, scrittore rifugiato a New York, politico nazional-bolscevico dopo la fine del comunismo, Serebrennikov aveva tra le mani una figura incandescente – un’epitome del ’900 e delle sue contraddizioni. Soprattutto, aveva lo straordinario libro di Carrère, un confronto tra lo scrittore e il suo personaggio (il suo avversario!) sul ruolo dell’artista nella società e sul fascismo come istinto naturale. Di tutto ciò, in questa produzione internazionale vergognosamente recitata in inglese non c’è nulla: solo la celebrazione acritica di un punk anarco-rivoluzionario, dove la storia dagli anni ’70 ai 2000 è giusto uno sfondo buono per una confezione da videoclip, per atmosfere digitali camuffate in 16mm o per animazioni con l’AI del found footage. E pure il bravo Ben Whishaw finisce per smarrirsi in un biopic visivamente pasticciato e narrativamente nullo.
Roberto Manassero, voto: 4
The Substance
di Coralie Fargeat
Che orrore il corpo di donna che invecchia: a Hollywood compiuti i 50 le attrici spariscono dalla ribalta, costrette dallo sguardo patriarcale, e dall’autosabotaggio derivante da standard iniqui, a nascondersi alla vista. O a ritoccarsi in un’eterna giovinezza, come da anni fa Demi Moore, emblematico corpo attoriale finalmente riportato a giusta gloria, nel ruolo di una Norma Desmond contemporanea che cede alla tentazione della sostanza, ritrovato sintetico capace di generare una versione più giovane e soda di sé. Come in un La morte ti fa bella girato da Cronenberg o Yuzna, la regista di Revenge porta alle estreme conseguenze un horror ludico e teorico, che rilegge il tabù verso i segni del tempo sul corpo femminile in una scorribanda caotica e grandguignolesca, estenuata e demenziale, femminista e autocritica («Ricordate che siete una sola» dice inutilmente lo slogan della sostanza, mentre tra donne ci si fa la guerra). Già cult.
Ilaria Feole, voto: 7
20 maggio
The Apprentice
di Ali Abbasi
Più che un biopic su Donald Trump, potrebbe essere un episodio allargato di Succession, da cui arriva uno mefistofelico Jeremy Strong, nei panni dell’avvocato Roy Cohn. Come nella popolare serie, qui Abbasi mostra una spietata guerra di famiglia. Donald, all’apice del successo, dice al padre: «Tu hai costruito il Trump Village, io la Trump Tower». Immerso nella fotografia sporca nella New York a partire dagli anni 70 e 80, è uno sguardo sui corridoi del potere della storia statunitense, che prende una direzione simile a quella di Larraín nei confronti di Jackie Onassis (e JFK) proprio per come isola il suo protagonista dalla dimensione pubblica. Abbasi, al primo film in lingua inglese, depotenzia il possibile mélo. The Apprentice cerca la giusta distanza e si mantiene compatto anche nella deviazione horror dal cinema politico dove mostra il patto col diavolo di Trump. Claustrofobico.
Simone Emiliani, voto: 7
The Shrouds
di David Cronenberg
Il medium è il messaggio. McLuhan? Anche Cronenberg. Cosa succede alla realtà e alla nostra percezione, al cinema dunque, quando tutto è visibile, ripreso, tenuto sotto controllo, fatto immagine? In The Shrouds lo sono i corpi, tracciati da dentro (e allora a cosa servono il gore, lo splatter, le frattaglie, se nulla è osceno, a questo punto, nemmeno le interiora?). Anche la morte è sotto lo sguardo delle camere, la consunzione (di una moglie, anche) registrata dai sudari hi-tech brevettati da Karsh (Vincent Cassel) e trasmessa in diretta in schermetti sulle lapidi, come in un reality show del deperimento (piacerebbe a Greenaway). E quindi? Che realtà e che cinema crea, questa tecnologia? Un mondo e inquadrature statiche, tantissime parole e pochissimo action, corpi fermi nei quadri (dove andare, se è tutto accessibile tramite l’immagine?), un tutto-visibile-e-superficiale in cui le immagini pesano quanto il reale e si confondono con esse, un qui e ora che non ha segreti e quindi necessita di un mistero, un qualcosa che gli dia un senso, un ordine, una scelta tra le parti, dato e memoria, verità e fantasia: in Crash era l’incidente, il desiderio che poteva rompere la bolla atarassica che è diventata la realtà. Oggi il fantasma erotico è il complottismo, il pensiero che dietro tutta questa immagine apatica e indistinta ci sia un disegno che muova le cose. Con altissimo rigore, Cronenberg gira un film parlato, in cui si discute fittamente di quel che sta oltre, riprendendo una trama (l’unico fatto è un atto di vandalismo alle tombe) che è solo un coacervo di ipotesi, e le inquadrature, ferme e allucinate, non sanno distinguere il vero dal possibile. Un film magistrale.
Giulio Sangiorgio, voto: 9
21 maggio
Anora
di Sean Baker
Ci stanno una giovane spogliarellista e un giovane rampollo dell’oligarchia russa, destabilizzato dai soldi, dall’alcol e dalla droga, che una notte è tra i clienti del locale e si innamora, senza averne forse cognizione, della ragazza in questione, che si chiama Anora, ma per tutti è Ani. Quando la sposa, dalla Russia la famiglia si ribella, ignorandone le conseguenze catastrofiche. Firmando anche sceneggiatura, montaggio e casting, Sean Baker rivela un’autorialità riconoscibile in un film che potrebbe tendenzialmente negarla e perlustrando ancora ambienti e personaggi sul crinale del vuoto, sbilancia la narrazione in un’incontrollabile reazione a catena di cause ed effetti esplosivi e (auto)distruttivi, dove ai due protagonisti si aggiungono le maldestre guardie del corpo del ragazzo. Ritmo scatenato, attori esuberanti, situazioni demenziali, urla che sfasciano. Si ride molto, ma il finale è perfino commovente.
Adriano De Grandis, voto: 8
Marcello mio
di Christophe Honoré
Meno Catherine. Più Marcello. È questa l’indicazione rivolta a Chiara dalla regista Nicole Garcia che la sta provinando per affiancare Fabrice Luchini in un prossimo film. Chiara è Chiara Mastroianni, figlia di Marcello e Catherine Deneuve, (condan)nata attrice, cresciuta professionalmente all’ombra di quei due fuochi, da sempre e (forse) per sempre messa loro a confronto. Non stupisce che il riflesso allo specchio – in un morphing nemmeno troppo spinto, vista l’impressionante somiglianza – la mostri con il volto del padre. Se dopo una carriera all’insegna del tentativo d’emanciparsi dall’eredità genitoriale lei stessa dubita di sé, tanto vale smettere di tormentarsi a proposito dell’«essere o non essere» e assecondare la propria inclinazione di pellicola neutra facilmente impressionabile (condizione comune a tutti quelli che praticano la professione “costretti” a definirsi nella parte che di volta in volta gli viene assegnata), e quindi liberarsi dalla prigione dell’io e accettare/confessare la sua “vera” identità d’ombrofaga che divora la propria stessa ombra: un soggetto che si realizza perdendosi, diventando altro per divenire la verità di se stesso. E questo divenire-altro per Chiara coincide col diventare il proprio padre. Come il Pierre Menard di Borges - lo scrittore che riproduce alla lettera, parola per parola e riga per riga, il Don Chisciotte, cambiandone completamente il senso – anche lei non vuole copiare/interpretare Marcello, ma esserlo: compiere una “mimesi assoluta”, una vera e propria “transustanziazione”. Di fronte al turbamento generale, solo Luchini è disposto a credere e giocare con Chiara a questo processo d’identificazione totale: se evidenziamo il verbo “giocare” è perché crediamo, come Carmelo Bene, che recitare («il teatro» diceva lui), «in nome di Dio, ha da esser gioco e non pensamento», perché solo il gioco, pensava Bataille, ha «la virtù di condurre molto avanti l’esplorazione del possibile», proprio come cerca di far capire il/la protagonista alla riluttante regista («Immagina la locandina: “Marcello Mastroianni e Fabrice Luchini nel nuovo film di Nicole Garcia”»). Christophe Honoré ci trascina con leggera sventatezza nel gorgo vertiginoso della messa in abisso rendendoci complici (commossi) di vere e proprie triplici capriole, come quando vediamo Chiara/Marcello parlare, in veste padre, a lei bambina. E lo fa per mezzo d’un film sospeso nell’intervallo che sta tra fiction e non-fiction (tutti i personaggi principali interpretano se stessi), tra racconto e auto-narrazione; quasi un saggio sul (non)senso d’essere attore costantemente esposto alla spaesante separazione tra Attore e Ruolo a cui è costretto l’interprete. Un visionario ritratto “bifido” d’artista (che perde, purtroppo, leggerezza solo nel frammento romano – ma siamo ormai nella parte finale) del tutto personale, volutamente parziale, sentimentale, impressionista, che fugge (travestendo l’oggetto della sua indagine) le logiche e le retoriche tradizionali del biopic.
Matteo Marelli, voto: 7
Parthenope
di Paolo Sorrentino
Parthenope nasce dal mare di Napoli per essere guardata. O l’oggetto del desiderio scopico prima di tutto del padre, poi degli amici, del fratello, di un mafioso, del vescovo che officia il miracolo di San Gennaro, del suo professore di antropologia, di una specie di Achille Lauro e dell’Avvocato Agnelli ma anche di una diva in disfacimento. Troppo facile dire che è La grande bellezza di Napoli, o una variazione al femminile di È stata la mano di Dio, ma è proprio così, e anche il film è (un po’) troppo facile, anche se rivitalizzato di continuo dalle situazioni e dalla prepotenza inventiva delle immagini. Sorrentino si abbandona alla contemplazione estatica, frontale, in carrellata, e abbassa il ritmo delle parole e dei dialoghi. Fa sua l’affermazione del professore: l’antropologia è vedere (sarebbe più corretto: guardare). È difficile parlare a Parthenope (la donna), perché risponde sempre per frasi fatte, recita sulla scena della sua vita, ed è difficile parlare di Parthenope (la città), senza parlarne male, come la simil Sophia Loren interpretata da Luisa Ranieri, che si lancia in un’invettiva formidabile, o scriverne una tesi (sui miracoli popolari). Parthenope è una rappresentazione perfetta dell’isteri(c)a: non ha desiderio per nessuno (e si concede solo alla mafia e alla Chiesa), mentre tutti la desiderano. Ma forse è il cinema di Sorrentino a essere diventato isterico, perché in questa pinacoteca di quadri bellissimi ha congelato lo slancio vitale in museo, da visitare sala per sala, o basso per basso, e si è fatto più freddo, o forse solo triste e melanconico. Se Roma era una ballerina, Napoli è una professoressa.
Andrea Bellavita, voto: 7
22 maggio
Grand Tour
di Miguel Gomes
Ogni film di Miguel Gomes è la ricerca del film che il regista vorrebbe e dovrebbe fare, e che invece non sa, non può, non vuole fare. I suoi racconti sovrappongono parole e immagini sfasandole, illustrano al contrario pagine di diario, usano la tradizione (letteraria, cinematografica) come traccia da seguire e riscrivere. Grand Tour, storia di un funzionario inglese del 1918 in fuga dalla promessa sposa e dell’inseguimento di quest’ultima attraverso Birmania, Singapore, Filippine, Giappone, Cina, riprende temi (l’osservazione documentaria, la finzione dentro set asettici), toni (tragici, ironici, stupefatti) e atmosfere (molli, coloniali, decadenti) di tutta la sua filmografia. Nell’ipnotico, estenuante incrocio di passato, presente, voci narranti, riprese antropologiche, ricostruzione storica, bianco e nero e colore, porta in scena la crisi di un autore, e dentro il quadro di questa afasia l’impronta della sua genialità.
Roberto Manassero, voto: 8
Motel Destino
di Karim Aïnouz
Il noir all’equatore, senza ombre e imbevuto di cromatismi primari: Karim Aïnouz torna in Brasile e si ferma al Motel Destino, dove i corpi stanno in sospensione tra passione e desiderio e il postino suonerebbe due volte. È qui che, dopo l’uccisione del fratello, il giovane Heraldo si nasconde: tra i gemiti perenni delle stanze a ora, in cui si agitano e sudano gli amanti occasionali. Il desiderio è la linea narrativa, il plot universale che Aïnouz attiva nello spazio iconico di un motel trasfigurato dalle luci fluorescenti: Heraldo incontra il desiderio di Dayana e anche di suo marito, Elias, e il film finisce nella classica triangolazione canonizzata da James Cain, con tanto di inciso finale sul riscatto degli umili. L’esito è intenso, ma piano come una tela, spalmato sulla scena cromatica, che assorbe l’eros dei corpi e il dramma del loro destino. Il mélo di La vita invisibile di Euridice Gusmão era un’altra cosa...
Massimo Causo, voto: 7
23 maggio
L’amour ouf
di Gilles Lellouche
L’amore folle, ma in argot, con lettere invertite: un po’ perché laureato all’università della strada (mica come quei borghesi dei surrealisti), un po’ perché non tutto va come l’incipit vuole. Lui (Frikah/Civil) è un delinquentello pieno d’ira per le botte del padre, lei (Wanecque/Exarchoupolos) è una dura cresciuta senza madre. Il giovane finisce in prigione, a espiare le colpe del figlio del boss. Dieci anni dopo torna, in cerca di rivalsa e fanciulla. Lellouche, attore “di consumo” tra commedia e action, scrive con Audrey Diwan un’abbuffata romantica e criminale bigger than buon senso, ammassando con sdegno verso il buon gusto inquadrature impossibili e raccordi cafoni, cast all star, dialoghi sentenziosi, parentesi musical e riscritture di classici, derive cinéma du look e dieci finali, come se si volesse vendere come una versione tarocca e tamarra di Lelouch, perché l’amore vince su tutto (anche su Carlito’s Way). Giuro: il guilty pleasure del festival.
Giulio Sangiorgio, voto: 6
All We Imagine as Light
di Payal Kapadia
Il ventre è quello di Mumbai, che accoglie, contiene, allontana, separa: l’incipit di All We Imagine as Light incide con voci di disappartenenza lo spazio della città. Vaghe tracce documentarie, che poi Payal Kapadia affida a Prabha e Anu, infermiere e compagne d’appartamento. La prima ha nel passato un marito emigrato in Germania e nel presente un dottore che le fa timidamente la corte; la seconda, più giovane, ama in segreto un ragazzo musulmano. La tessitura narrativa è trasparente come quella visiva: i margini marcati della realtà non contengono un film che cerca con determinazione quasi “politica” la fuga in una dimensione mentale e sentimentale, dove trovare le coordinate identitarie delle protagoniste. Il villaggio sul mare, che accoglie la collega sfrattata dalla gentrificazione di Mumbai, apre infine il film a scenari di libertà, poco conta se reali o immaginari... Ma questo a Payal Kapadia era già chiaro sin da A Night Of Knowing Nothing.
Massimo Causo, voto: 8
24 maggio
The Seed of the Sacred Fig
di Mohammad Rasoulof
Dentro: moglie, marito, due figlie. Fuori: una città, Teheran, e un paese, l’Iran, sconvolti da un’ondata di proteste senza precedenti dopo la morte di Mahsa Amini. La paranoia prende in ostaggio la famiglia quando la pistola d’ordinanza del padre, giudice istruttore dalla coscienza pesante, scompare nel nulla. Un film girato in condizioni più che ostili, dal passo ineguale e dalla durata sovrabbondante. Ma anche – e soprattutto – un film dalla potenza politica incendiaria, di un’urgenza e un coraggio fuori scala. Poche sottigliezze, l’attacco è frontale: il patriarcato e l’ombra lunga della teocrazia, e la loro morte auspicata. Condannato al carcere e alle frustate in patria, il regista è fuggito rocambolescamente all’estero. Ma siamo ben oltre l’abusata etichetta di “film necessario”. È cinema furioso che non abbassa lo sguardo, una chiamata alla armi della coscienza. Ammutolisce tutto ciò che si è visto in concorso a Cannes.
Eddie Bertozzi, voto: 9
La plus précieuse des marchandises
di Michel Hazanavicius
Un povero boscaiolo e la sua povera moglie vivono isolati nel cuore di una gelida foresta, soli, senza figli. Da un treno in corsa verso un campo di sterminio viene lanciato un fagottino, una merce molto pregiata: un neonato. Lo accudiscono nella cura e nel segreto, consapevoli che accogliere un “senza cuore”, un ebreo, in quel tempo disumano potrebbe costare loro molto caro. Hazanavicius conferma l’eclettismo del suo cinema misurandosi questa volta con l’animazione. È per il regista una vera opera d’amore che ha personalmente disegnato immagine per immagine, realizzando un film fuori (dal) tempo per stile e passo, ma che sa evocare con sincerità la tenerezza e l’orrore, l’umanità e il suo contrario. Sostenuto dalla (come sempre onnipresente) colonna sonora di Alexandre Desplat, non si limita a farsi memento degli orrori della Shoah, ma articola una sentita riflessione sull’amore e la sua trasmissione, oltre la perdita. E la vita continua.
Eddie Bertozzi, voto: 7
I film in concorso
The Apprentice - Alle origini di Trump
Biografico - USA 2024 - durata 120’
Titolo originale: The Apprentice
Regia: Ali Abbasi
Con Sebastian Stan, Jeremy Strong, Maria Bakalova, Martin Donovan, Patch Darragh, Emily Mitchell
Al cinema: Uscita in Italia il 17/10/2024
La plus précieuse des marchandises
Animazione - Francia 2024 - durata 81’
Titolo originale: La plus précieuse des marchandises
Regia: Michel Hazanavicius
The Seed of the Sacred Fig
Drammatico - Iran 2024 - durata 0’
Titolo originale: The Seed of the Sacred Fig
Regia: Mohammad Rasoulof
Con Soheila Golestani, Misagh Zare, Mahsa Rostami, Setareh Maleki, Niousha Akhshi
All We Imagine as Light - Amore a Mumbai
Drammatico - India, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo 2024 - durata 115’
Titolo originale: All We Imagine as Light
Regia: Payal Kapadia
Con Kani Kusruti, Divya Prabha, Chhaya Kadam, Hridhu Haroon
Al cinema: Uscita in Italia il 10/10/2024
L'amour ouf
Sentimentale - Francia 2024 - durata 180’
Titolo originale: L'amour ouf
Regia: Gilles Lellouche
Con Adèle Exarchopoulos, François Civil, Alain Chabat, Vincent Lacoste, Elodie Bouchez, Benoît Poelvoorde
Motel Destino
Thriller - Brasile 2024 - durata 112’
Titolo originale: Motel Destino
Regia: Karim Ainouz
Con Fabio Assunçao, Nataly Rocha, Iago Xavier
Grand Tour
Sperimentale - Portogallo, Italia, Francia 2024 - durata 128’
Titolo originale: Grand Tour
Regia: Miguel Gomes
Con Gonçalo Waddington, Crista Alfaiate
Al cinema: Uscita in Italia il 05/12/2024
Parthenope
Drammatico - Italia, Francia 2024 - durata 136’
Regia: Paolo Sorrentino
Con Silvio Orlando, Peppe Lanzetta, Gary Oldman, Celeste Dalla Porta, Luisa Ranieri, Isabella Ferrari
Al cinema: Uscita in Italia il 24/10/2024
Marcello mio
Drammatico - Francia, Italia 2024 - durata 121’
Titolo originale: Près des yeux, près du coeur
Regia: Christophe Honoré
Con Chiara Mastroianni, Catherine Deneuve, Fabrice Luchini, Nicole Garcia, Melvin Poupaud, Benjamin Biolay
Al cinema: Uscita in Italia il 23/05/2024
in streaming: su Rakuten TV Google Play Movies Apple TV Amazon Video Timvision Now TV Sky Go
Anora
Drammatico - USA 2024 - durata 139’
Titolo originale: Anora
Regia: Sean Baker
Con Mikey Madison, Yura Borisov, Ivy Wolk, Lindsey Normington, Karren Karagulian, Ross Brodar
Al cinema: Uscita in Italia il 07/11/2024
The Shrouds
Horror - Francia, Canada 2024 - durata 119’
Titolo originale: The Shrouds
Regia: David Cronenberg
Con Diane Kruger, Vincent Cassel, Guy Pearce, Sandrine Holt
Wild Diamond
Drammatico - Francia 2024 - durata 103’
Titolo originale: Diamant Brut
Regia: Agathe Riedinger
Con Malou Khebizi, Idir Azougli, Andréa Bescond, Ashley Romano, Alexis Manenti, Kilia Fernane
The Substance
Horror - USA 2023 - durata 140’
Titolo originale: The Substance
Regia: Coralie Fargeat
Con Demi Moore, Margaret Qualley, Dennis Quaid, Oscar Lesage, Joseph Balderrama, Gore Abrams
Al cinema: Uscita in Italia il 30/10/2024
Limonov
Biografico - Italia, Francia, Spagna 2024 - durata 138’
Titolo originale: Limonov: The Ballad of Eddie
Regia: Kirill Serebrennikov
Con Ben Whishaw, Tomas Arana, Sandrine Bonnaire, Louis-Do de Lencquesaing, Maria Mashkova, Viktoria Miroshnichenko
Al cinema: Uscita in Italia il 05/09/2024
Emilia Perez
Musicale - USA, Messico 2024 - durata 130’
Titolo originale: Emilia Perez
Regia: Jacques Audiard
Con Selena Gomez, Zoë Saldana, Edgar Ramirez, Karla Sofía Gascón, Adriana Paz, Eric Geynes
Al cinema: Uscita in Italia il 09/01/2025
Caught by the Tides
Drammatico - Cina 2024 - durata 111’
Titolo originale: Feng liu yi dai
Regia: Jia Zhang-ke
Con Tao Zhao, You Zhou, Xu Changchu, Maotao Hu
I tradimenti
Drammatico - USA 2024 - durata 91’
Titolo originale: Oh, Canada
Regia: Paul Schrader
Con Jacob Elordi, Uma Thurman, Richard Gere, Michael Imperioli, Kristine Froseth, Penelope Mitchell
Kinds of Kindness
Drammatico - USA 2024 - durata 164’
Titolo originale: Kinds of Kindness
Regia: Yorgos Lanthimos
Con Hong Chau, Emma Stone, Willem Dafoe, Hunter Schafer, Margaret Qualley, Jesse Plemons
Al cinema: Uscita in Italia il 06/06/2024
in streaming: su Microsoft Store Google Play Movies Apple TV Rakuten TV Disney Plus Amazon Video Timvision
Three Kilometres to the End of the World
Drammatico - Romania 2024 - durata 105’
Titolo originale: Trei kilometri pâna la capitul lumii
Regia: Emanuel Parvu
Con Bogdan Dumitrache, Laura Vasiliu, Ciprian Chiujdea, Ingrid Micu-Berescu, Valeriu Andriuta
Bird
Drammatico - Regno Unito, USA, Francia, Germania 2024 - durata 119’
Titolo originale: Bird
Regia: Andrea Arnold
Con James Nelson-Joyce, Barry Keoghan, Franz Rogowski, Jasmine Jobson, Rhys Yates, Joanne Matthews
Megalopolis
Fantascienza - USA 2024 - durata 138’
Titolo originale: Megalopolis
Regia: Francis Ford Coppola
Con Adam Driver, Shia LaBeouf, Aubrey Plaza, Jason Schwartzman, Jon Voight, Nathalie Emmanuel
Al cinema: Uscita in Italia il 16/10/2024
The Girl with the Needle
Horror - Danimarca 2024 - durata 115’
Titolo originale: Pigen med nålen
Regia: Magnus von Horn
Con Vic Carmen Sonne, Trine Dyrholm, Besir Zeciri, Ava Knox Martin, Joachim Fjelstrup, Tessa Hoder
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