Under the Bridge non è una miniserie su un giovane artista che ha smesso con le droghe, però tutti i suoi amici fumano ancora le sigarette di marijuana dunque egli, il giovane artista, si sente molto solo e vaga per la città, che in quel momento gli sembra la sua unica amica, ma comunque rimane bello convinto che smettere di farsi di speedball sotto il ponte con dei soci loschi sia stata la scelta migliore che potesse fare.
Under the Bridge ha in comune, con il celebre pezzo dei Red Hot Chili Peppers, il fatto di raccontare una storia realmente accaduta, il fatto che la suddetta storia abbia per protagoniste persone a disagio con la loro realtà e il fatto che sotto ai ponti, purtroppo, succedono un sacco di cose brutte. Perché la gente perbene – la gente normale, direbbe un Vannacci qualunque – non solo evita di guardare sotto ai ponti e non si cura di quello che ivi può succedere, ma fa proprio attivamente finta di nulla per non doverci pensare, con tutti i problemi che ho nella vita, con la signora delle pulizie che continua a mancarmi di rispetto dandomi del “tu”, figurati se ho tempo di interessarmi ai disagiati. E poi ci stupiamo fingendo sorpresa e raccapriccio – facciamo così con la bocca :o come Kevin in Mamma ho perso l’aereo quando si mette il dopobarba – dopo aver visto e ascoltato storie incredibili come quella raccontata da Under the Bridge. La miniserie – distribuita negli USA da Hulu e creata e diretta dalla giovanissima (28 anni) Quinn Shephard – non la canzone dei Chilly Willy.
Dice Rebecca Godfrey che questa storia, sulla carta, è l’esatto opposto di una favola. Solo che poi, fa giustamente notare, vai a controllare bene di cosa parlano le favole della tradizione – specialmente quelle ideate e/o raccolte dai fratelli Grimm – e ti rendi conto che l’horror è sempre stato il genere di racconto preferito dagli esseri umani. Siamo nel novembre del 1997 a Saanich, Victoria, nel lontano ovest del Canada, a un tiro di schioppo (per gli standard di quei posti: 100 chilometri) da Vancouver. A Saanich c’è la Seven Oaks, una casa famiglia per ragazze adolescenti. Reena è cresciuta in una famiglia punjabi convertita a testimoni di Geova – una minoranza della minoranza – e le è capitato di soggiornare una volta a Seven Oaks, stringendo un forte legame con alcune delle ragazze e continuando frequentarle anche dopo essere stata fatta tornare a casa dai servizi sociali.
Le girlz, tutte insieme, formano un gruppetto di quattordicenni seriamente terrificanti che si fa chiamare CMC (Crip Mafia Cartel), comandato con bullismo e prepotenza dalla bionda con il choker Josephine Bell, convinta che nella vita il rispetto si guadagni con la violenza e con la forza. Sul serio: la ragazza sogna di andare a New York e di entrare nella cosca di John Gotti, del quale porta la foto sempre con sé dentro a un cuoricino appeso al collo. Reena viene umiliata per l’ennesima volta da Josephine e per forza di cose, nella logica di quella realtà, deve rispondere con lo stesso genere di affronto.
Ruba l’agenda di Josephine e passa il pomeriggio a chiamare i suoi contatti e a diffondere balle colossali (“Josephine ha l’AIDS”) e quasi tenere (“Josephine ha le tette rifatte e le sopracciglia dipinte”) non fosse che stiamo parlando di adolescenti incazzate come delle vipere e dunque non c’è da scherzare. L’ape regina viene a sapere della malalingua e la attira alla stessa festa da cui qualche ora prima l’aveva esclusa. Reena è A) convinta di aver ottenuto il rispetto della mantide religiosa dopo averle riservato il trattamento che di solito è a suo appannaggio e B) è talmente insofferente nei confronti della famiglia che piuttosto di restare a cena con loro sarebbe disposta a farsi un giretto nella fossa dei leoni.
La Rebecca Godfrey della voce fuori campo che ha inaugurato il pilota, invece, è una giovane scrittrice nata e cresciuta a Victoria, dalla quale è scappata in direzione New York, dove vive e prospera. Però c’ha il malessere addosso perché continua a pensare a quel buco infernale che ha ospitato la sua adolescenza e che sembra attirare così tanto male dietro a una facciata impeccabile. Torna a casa per scriverne, scova la storia di Reena e la fa diventare il libro da cui poi è stata tratta questa miniserie. Sembra un film di Nolan.
E invece potrebbe essere un film di Scorsese, visto che il terzo vertice del triangolo di questo resoconto è interpretato da Lily Gladstone. La sua Cam è una poliziotta di origini native americane cresciuta da un babbo sbirro bianco in un ambiente di sbirri che le ha inculcato, volente o nolente, una certa dose di razzismo funzionale. È gente che chiama le ragazzine di Seven Oakes le “Bic”, come le penne, perché sono quasi usa e getta. Per dire. Cam è costretta a navigare controcorrente a una marea di stereotipi, se vuole convivere senza traumi con le persone che fanno parte della sua cerchia ristretta, ma è comunque l’unica che si dimostra disposta ad ascoltare il padre e lo zio di Reena (entrambi ottimamente baffuti) quando arrivano in stazione a denunciare la scomparsa della ragazza.
Dal pilota, Under the Bridge non sembra uno di quei true crime canonici, banali e noiosi. Un po’ perché la storia è completamente fuori dai gangheri – se vi ci soffermate per un minuto valutandone la portata: quattordicenni che si ammazzano tra di loro perché è così che ci si guadagna il rispetto, cazzo – un po’ perché è raccontata da due punti di vista, quello dell’autrice del libro e quello della poliziotta (anch’ella minoranza della minoranza), che per emozioni, sentimenti e vissuto collimano sia con quello della vittima, sia con quello delle carnefici.
La serie tv
Under the Bridge
Poliziesco - USA 2024 - durata 47’
Titolo originale: Under the Bridge
Creato da: Quinn Shephard
Con Lily Gladstone, Terry Chen, M.J. Kokolis, Daniel Diemer, Vritika Gupta, Archie Panjabi
in streaming: su Disney Plus
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