Stephen Chow è uno dei tizi di cinema più divertenti degli ultimi trent’anni. Ma è uno stupidotto! protesteranno alcuni di quelli che hanno avuto il dispiacere di fare la sua conoscenza grazie al doppiaggio italiano di Shaolin Soccer – un crimine contro l’umanità avallato dalla FIGC e da Pino Insegno – o di Kung Fusion, dove quantomeno sono tutti attori o doppiatori professionisti.
E hanno abbastanza ragione, quegli alcuni di quelli: Stephen Chow è proprio uno stupidotto. Ma c’è modo e modo di leggere “stupidotto”. Se guardi qualcuno dall’alto al basso, è uno stupidotto sdegnoso, sprezzante e altezzoso. Se a qualcuno ci vuoi bene, invece, stupidotto diventa un nomignolo molto tenero e musicale. E a Stephen Chow vuoi volerci bene, soprattutto perché la sua comicità è (paradossalmente?) tanto stupida quanto ricercata, tanto istantanea quanto stratificata.
Chow è il classico campione del cinema di Hong Kong: come tanti dei suoi colleghi, lungo il corso della carriera ha fatto di tutto e di più, dalla tv per bambini agli action con John Woo (Just Heroes), per poi trovare il suo posto nel cuore del pubblico (standard aureo per fare strada nel cinema di Hong Kong, ancor più che altrove) come interprete di parodie comiche di film di successo. Da lì ha cominciato a trovare la sua voce comica, prima come faccia e corpo imprestati a idee altrui, quindi anche come autore e regista. La sua comicità è talmente riconoscibile e specifica – anche se non inventata di sana pianta: Chow ha mutuato e portato al parossismo una tendenza che già esisteva negli anni 70 – che fin dai primi film si merita un nome tutto suo: mo lei tau.
Una traduzione inglese di mo lei tau accettata da Stephen Chow è “silly talk”, una “parlata sciocca”. In realtà la formula deriva dall’espressione idiomatica “mo lei tau gau”, che la gente con il cantonese facile traduce come “non saper distinguere fra testa e coda”, che nel significato comune è diventato “senza motivo”, quindi inaspettato e di conseguenza nonsense. Una comicità in cui la punch-line non segue la logica della premessa, soddisfacendo grandemente quelli per cui la definizione ideale di umorismo è “Il momento in cui ti rendi conto della discordanza fra il risultato atteso e quello effettivamente raggiunto”.
Il motivo per cui il carattere “gau” è stato eliminato dall’espressione è, a tal proposito, degno del miglior mo lei tau: in cantonese, infatti, è molto facile storpiare la pronuncia di quel carattere e farlo diventare “pisello”, rendendolo inservibile in contesti pubblici e formali. In sostanza, per riassumere, il succo del discorso è che Chow è un maestro del non sequitur, come ce ne sono tanti in tutto il mondo, da Jannacci a Woody Allen passando per Donald Trump? Grazie, Graziella, ma è tutto qua? In effetti no.
A partire dal fatto che il mo lei tau, al contrario di un artificio retorico come il non sequitur, è un’espressione culturale che guadagna di senso quando viene contestualizzata. È una modalità comica che nasce anche come reazione, in un periodo (gli anni 70) in cui Hong Kong completava la sua digievoluzione eterodiretta: da oasi composta da una manciata di villaggi di pescatori cantonesi, a gran bordello di metropoli verticale dove le autorità spingono per imporre inglese e mandarino. Il nonsense del mo lei tau riflette questa confusione anarchica e, contemporaneamente, reagisce alla nuova condizione escludendo chi non è madrelingua cantonese tramite giochi di parole intraducibili e oscuri riferimenti alla cultura pop hongkonghese.
Ma quello di Chow, come detto, è anche un umorismo fatto di strati, e lavora su più livelli (visivo/slapstick/commedia dell’assurdo, riferimento pop, gioco di parole, non sequitur) che possono accumularsi, a seconda dei riferimenti che lo spettatore è in grado di cogliere, ma possono anche restare separati e la battuta andrà comunque a segno. Il mo lei tau, infine, è anche una comicità metatestuale: si affida al fatto che il pubblico riconosca i diversi linguaggi sovrapposti o giustapposti nella stessa battuta.
È il vero motivo per cui Stephen Chow, al primo impatto, può sembrare solo uno stupidotto. In realtà è un comico talmente brillante da essere riuscito a portare la logica umoristica del linguaggio del cartone animato al cinema live action. Non l’estetica. Non i colori. Non (solo) l’incredibile e costante esagerazione. Ma lampi (anche solo inquadrature singole) di locura che attingono a quella grammatica particolare (e immediatamente riconoscibile). Insomma, non solo un maestro del non sequitur. Più precisamente un genio comico che riesce a trascendere qualsiasi barriera linguistica e culturale.
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