Guarda un po’ come funzionano strani il cinema e la narrazione. Da una parte il singolo evento (probabilmente) più importante nella storia della società umana, mai sfiorato neanche per sbaglio da un film di finzione; dall’altra un evento più simbolico che fondamentale, il quale è diventato protagonista assoluto e perfettamente cinematografico di almeno una coppia di titoli memorabili.
Da una parte il 23 febbraio del 1455, quando Johannes Gutenberg (insieme al socio, il negletto incisore Peter Schöffer) finiva di stampare la prima copia della Bibbia a 42 linee in caratteri gotici, cambiando di un sacco le sorti del mondo e di chi ci fa sopra il tagadà. Gente che legge, gente che contesta la versione della Bibbia fornita dal clero, gente che studia, gente che si inventa la democrazia moderna, ed è un attimo che nasce l’internet e l’umanità è spacciata. Solo che non esistono film su Johannes Gutenberg. Né tantomeno sul povero Peter Schöffer – e sì che ci sarebbe tutto un thriller avvocatesco medievale da esplorare, visto che Gutenberg è finito in tribunale proprio nel 1455, con i finanziatori che lo denunziarono a causa dei ritardi nella conclusione dei lavori. Dunque non c’è cinema di finzione che si sia preso la briga di rendere epica la biografia del tipografo di Magonza. Anche perché, in effetti, non c’è niente di più complicato che rendere spettacolare la vita di un orafo tedesco basso medievale.
D’altra parte – e dall’altra parte – c’è il 23 febbraio 1945 e la “facilità” (si fa per dire, suvvia) di portare efficacemente sullo schermo la potenza e l’epica di un grandioso gesto simbolico e retorico, immortalato dal fotografo della Associated Press Joe Rosenthal (con uno scatto che gli è valso il premio Pulitzer) e reso istantaneamente iconico dall’estetica e dalla propaganda: l’alzabandiera a Iwo Jima, che ha ispirato a Clint Eastwood il dittico Flags of Our Fathers e Lettere da Iwo Jima, il racconto della stessa battaglia da una parte e dell’altra della trincea.
Quando i cinque marines americani, insieme a un soldato della marina, issano il secondo (più grande e visibile) vessillo a stelle strisce sulla cima del monte Suribachi, la battaglia per la conquista dell’isola (che in quel momento rappresenta l’ultimo avamposto militare giapponese a difesa del paese) è iniziata solamente da 4 giorni e durerà ancora per un altro mese, con la bandiera bianca nipponica che verrà sventolata solo il 26 marzo. Per gli statunitensi però, in piena campagna propagandistica di raccolta fondi per sostenere lo sforzo bellico in dirittura d’arrivo, la forza di una singola immagine e della narrativa che ci si può appiccicare dietro è decisamente più importante di qualsiasi realtà dei fatti.
Va bene che l’esercito giapponese era dato per spacciato – era drammaticamente inferiore per numeri e armamenti –, ma celebrare una vittoria così presto fa sempre venire in mente il ciclista che alza le mani dal manubrio prima del dovuto e finisce faccia a terra oppure, se va bene, secondo. Gli americani hanno avuto ragione, l’isola di Iwo Jima è stata conquistata e la volontà del popolo giapponese piegata – con una quantità di forza misurabile in megatoni. Ma a rimanere impressa, osservando questo angolo di Seconda guerra mondiale dal punto di vista americano, è l’ipocrisia con cui la propaganda bellica si è appropriata dell’episodio – dirottando le vite di chi era stato arbitrariamente scelto per prendere parte a quel momento – allo scopo di trasformarlo in ulteriore carburante per una mitologia partigiana; efficace sull’onda emotiva del momento, ma lontana dal sangue dalle budella e dalla merda riportate dalla cronaca storica e più aderenti alla realtà.
Eastwood, in Flags of Our Fathers, non è minimamente interessato a dare un giudizio di valore sulla guerra in sé. Dal suo resoconto, incazzato con il sistema della propaganda e con la disumanità a cui sono stati sottoposti i tre alzabandiera sopravvissuti alla battaglia solo per diventare mascotte in patria, viene eliminata ogni traccia di retorica, da una parte e dall’altra (di nuovo) della barricata. Via la retorica sull’eroismo romantico degli eroi di guerra; ma allo stesso tempo via anche la retorica sulla tragedia del conflitto e sul dolore inutile che causa.
Flags of Our Fathers è una lezione di asciuttezza anti-spettacolare, a cui forse manca un po’ di fuoco – e un gruppo di interpreti più carismatici. È prima di tutto una lezione su quello che è successo davvero al di là del palco mistificatore allestito dalla propaganda. In Lettere da Iwo Jima, invece, l’episodio dell’alzabandiera americano rimane sullo sfondo (letteralmente) e permette a Eastwood di lasciarsi andare a un film meno didascalico e ancora più umano nel suo rifiuto di una retorica stereotipata: la guerra, e di conseguenza i soldati che la combattono sul campo, non viene giudicata nel bene o nel male, ma viene osservata e raccontata come inevitabilità della Storia umana.
I due film di Clint Eastwood
Flags of Our Fathers
Guerra - USA 2006 - durata 131’
Titolo originale: Flags of Our Fathers
Regia: Clint Eastwood
Con Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Adam Beach, Barry Pepper, Jamie Bell, Neal McDonough
Al cinema: Uscita in Italia il 10/11/2006
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Rakuten TV Google Play Movies Netflix Netflix basic with Ads Timvision Amazon Video
Lettere da Iwo Jima
Guerra - USA 2006 - durata 141’
Titolo originale: Letters from Iwo Jima
Regia: Clint Eastwood
Con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara, Ryo Kase, Shido Nakamura, Hiroshi Watanabe
Al cinema: Uscita in Italia il 16/02/2007
in TV: 23/11/2024 - Sky Cinema Due - Ore 23.20
in streaming: su Now TV Sky Go Apple TV Rakuten TV Google Play Movies Netflix Netflix basic with Ads Timvision Amazon Video
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