Non si dice, ma si capisce e serve a dare al termine la gravitas proattiva che gli si confà. Hapless: voce dell’aggettivo sfigato; non solo e non tanto riferito alla mala sorte – pure se agli Hapless succedono faccende che la dea bendata ci vede benissimo, le ha messe in fila e ha preso anche la mira – quanto a indicare un atteggiamento nei confronti della vita che è colmo di sfavore e di scelte che lasciano lo spettatore con la fronte a schiantarsi sul palmo di una mano mentre si esala il medesimo commento sonoro che farebbe una zampogna calpestata da un asino imbizzarrito.

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Hapless

Hapless è una vecchia serie inglese – risale al 2020, è prima del COVID, praticamente preistoria, non voglio sentire ragioni logiche – scritta, diretta e autoprodotta da Gary Sinyor, ebreo di Manchester protagonista di una trentennale carriera nell’audiovisivo britannico con risultati tra l’ok (Due famiglie per Leon) e il mediocre ma innocuo (Lo scapolo d’oro, Un single per due, Bob -Un maggiordomo tutto fare); il quale, all’alba dei sessant’anni, ha deciso che non avrebbe imboccato il viale del tramonto che porta al dopolavoro ENPALS e ai tornei di backgammon calmierato, ma avrebbe bensì tentato un ulteriore guizzo artistico, pagato di tasca propria e senza rotture di scatole da parte di produttori che pensano solo al profitto. O qualcosa del genere. Fatto sta che con una troupe di sette persone e un cast fisso di tre protagonisti, Sinyor si è inventato una sitcom indipendente che viaggia ben al di fuori dei binari a cui siamo abituati dal genere, ha ottenuto distribuzione in patria (su Prime Video) e ha fatto anche il salto dell’Atlantico fino negli Stati Uniti, dove in questi giorni è in uscita la seconda stagione (risalente al 2023).

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Hapless

Paul Green ha il nome e l’energia molto inglesi di uno che non ammetterebbe mai di aver sbagliato a invadere un subcontinente solo perché a casa sua il cibo fa schifo, ma allo stesso tempo non ha il titolo nobiliare o lo chassis psico-fisico per permettersi di fare il superiore. Lavora come reporter investigativo – grandi inchieste sui veicoli dei pompieri della caserma di quartiere – per i tipi del The Jewish Enquirer, “la quarta più importante pubblicazione ebraica del Regno Unito”.

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Hapless

Ha un migliore amico, Simon, e i due sembrano uniti soprattutto dall’insipienza nell’intrattenere rapporti sociali con altre persone e dall’ossessione per il rimorchio acrobatico e insistito di donne quarantenni che da tempo, per questioni di sopravvivenza, si sono viste costrette ad abbassare di molto i loro standard sessuali in fatto di uomini. Paul ha anche una sorella, tendenzialmente incazzata come una faina anche se non soprattutto per la dabbenaggine del fratello, e un padre squattrinato e pretenzioso da cui ha ereditato la franchezza fuori luogo e l’incapacità di contenere i capricci.

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Hapless

Paul non è il migliore né il peggiore. È una versione solo lievemente esagerata di una persona qualsiasi, che per un motivo o per l’altro non ha mai lasciato il quartiere in cui è cresciuto e non si è mai evoluto in qualcosa di diverso. Non è né buono né cattivo. Sa essere antipatico, ma è sincero anche quando non gli conviene; è entusiasta del proprio lavoro, ma non gli importa di usare trucchetti e scorciatoie per un tornaconto personale che non entra nel penale, ma è di certo moralmente dubbio; farebbe di tutto per far scopare Simon, ma se si dovesse aprire uno spiraglio per se stesso ci metterebbe meno di un secondo a prendere il posto dell’amico facendogli anche una pernacchia.

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Hapless

Non è un caso se qualcuno – specialmente i meta-colleghi di Paul che scrivono per conto di pubblicazioni destinate a un pubblico di cultura ebraica – ha avuto l’ardire di paragonare Hapless a Curb Your Enthusiasm. Fin dal titolo – Sfigato e Frena l’entusiasmo – le due serie condividono un umorismo amaro, fatto di convenzioni sociali goffamente frantumate da un protagonista che vive in un universo parallelo nel quale esiste solo lui e gli altri sono proiezioni olografiche sullo sfondo.

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Hapless

Una comicità che dal cervello passa alla pancia, che punta all’imbarazzo e all’empatia per raccontare uno sfigato qualunque – incarnato dalla brillante postura passivo-aggressiva di Tim Downie, che avete visto in Paddington e in Toast of London dunque è un ragazzo a posto – alle prese con le fosse che si è lui stesso scavato e con le toppe peggiori del buco nei pantaloni che lui stesso ha rovinato.

Autore

Nicola Cupperi

Scrive per FilmTv perché gliel'ha consigliato il dottore. Nel tempo libero fa la scenografia mobile. Il suo spirito guida è un orso grigio con le fattezze di Takeshi Kitano.