È un’ovvietà, ma non ci si abitua mai alla straordinaria ricchezza, all’opulenza immaginativa dei set creati dallo scenografo (riduttivo: trattasi di artista a tutto tondo) Ken Adam per i film di James Bond. Agente 007 – Una cascata di diamanti inizia con la distruzione di uno di questi. Il corpo di un uomo, scagliato da Connery, sfonda una serie di fusuma, i pannelli scorrevoli in legno ricoperto di cartone e carta che definiscono la disposizione degli spazi nelle abitazioni tradizionali giapponesi.
L’azione si sposta per il tempo di una brevissima scena in un ipotetico Cairo, poi in Sudafrica e ad Amsterdam e quindi a Las Vegas. Qui Bond scala un grattacielo, la Whyte House, per interrogare l’eponimo miliardario in merito al contrabbando internazionale di diamanti al centro della trama. Vi trova invece una doppia versione della sua nemesi, quel Blofeld che spadroneggia al centro di un’enorme sala arredata con un plausibile compendio dello stile in voga in quegli anni: un lampadario composto da elementi tubolari in metallo, un divano in pelle over size e, ai lati della scrivania, addirittura due lampade Arco, la geniale invenzione dei fratelli Castiglioni saccheggiata innumerevoli volte dal cinema e definita da un corpo composto da tre settori in profilato di acciaio che scorrono l’uno dentro l’altro e da una base in marmo bianco.
A dire dell’influenza del design italiano dell’epoca sulla scena internazionale, sul lungo tavolo che si ravvisa per qualche istante alle spalle di Blofeld è possibile riconoscere anche la lampada da tavolo G.O., disegnata da Giuseppe Ostuni e connotata da uno stelo verticale da cui si snoda un braccio orizzontale scorrevole su cui è montato il paralume. Ma l’ambientazione più rimarchevole, la dimora estiva del misterioso Whyte evocata nei dialoghi prima che mostrata, proprio come si confà a una diva, non porta la firma di Adam, ma è una location che qualcuno gli suggerisce per la bisogna, e che lo porta a dichiarare: “cercavo qualcosa di esotico a Palm Springs e quando mi è stata mostrata questa costruzione l’ho trovata perfetta; ho pensato che avrei potuto disegnarla io, l’ho scelta senza aggiungervi nulla”.
La casa è una delle opere più sbalorditive di John Lautner, allievo, come è noto, di F.L. Wright e formatosi insieme a figure come Santiago Martinez Delgado e Paolo Soleri nel primo gruppo dei ragazzi di Taliesin West. Terminata nel 1968, la Elrod House – questo il nome dell’opera – si trova per l’appunto a Palm Springs, al 2175 di Southridge Drive, e deve il suo nome al committente, un interior designer talmente ricco che, trovandosi a passeggiare con Lautner sul terreno sul quale sarebbe sorta l’abitazione, dice all’architetto: “creami quello che pensi io debba avere su questo lotto”. Questi lo prende in parola e dà vita a uno dei massimi esempi di quell’architettura organica di cui è stato, insieme al suo illustre Maestro, uno dei portavoce più rappresentativi.
La Elrod House massimizza i precetti di Wright: la struttura si inserisce nel paesaggio con discrezione pressoché camaleontica, i concetti di outdoor e indoor si fanno talmente labili da far collassare la distinzione, la natura prorompe nella villa con l’evidenza di enormi costoni di roccia che, semplicemente, si fanno arredo. Il tetto della dimora è costituito da una maestosa copertura in cemento armato, che parte dalla zona giorno per arrivare agli spazi esterni dove il cemento cede il passo al vetro.
Composto da quattro camere da letto servite da bagni privati, il capolavoro di Lautner sbalordisce principalmente per il suo living di venti metri quadri sormontato dalla cupola conica su cui sono ritagliati lembi aperti sull’esterno che, esattamente come le vetrate scorrevoli retrattili che corrono circolari lungo il perimetro dell’ambiente, offrono una memorabile vista panoramica sulle montagne di San Jacinto.
Quando appare per la prima volta sullo schermo, Elrod House si staglia sfocata alle spalle del primo piano di Bond, ripresa dal basso a enfatizzarne la collocazione su un promontorio. Stacco. L’agente costeggia la parete d’ingresso arcuata in calcestruzzo, che ricorda il fianco di una balena.
007 spinge un portone in pietra e si trova in un anti ingresso che prevede, alla sua destra, una parete ricoperta di vegetazione. L’uomo scosta una porta di vetro e accede alla zona giorno dominata dalla cupola, dove sono presenti altri oggetti entrati nella storia dell’arredamento: la poltrona Ribbon di Pierre Paulin e la Up Chair di Gaetano Pesce, quest’ultima, in schiuma di poliuretano flessibile a iniezione, è forse il frutto più fulgido della grande stagione del design radicale.
Sulle sue forme sinuose riposa una delle due donne che aggrediranno Bond; l’altra, invece, è adagiata su una delle formazioni rocciose attorno a cui Lautner ha eretto la propria creazione. Elrod House occupa la scena per cinque minuti scarsi, ché poi, si sa, l’avventura deve correre altrove. Dalla rete si apprende che, circa otto anni fa, era in vendita per 10,5 milioni di euro, valore poi contrattosi del 24%. Sono contingenze economico-finanziarie, bagattelle, trivialità. Per qualsiasi bondiano doc (e, più in generale, per qualsiasi amante della pura bellezza), quella casa vivrà della flagranza, della macroscopica evidenza di una delle scenografie più indimenticabili dell’intera saga. E lo farà per sempre, come un diamante.
Il film
Agente 007. Una cascata di diamanti
Spionaggio - Gran Bretagna 1971 - durata 122’
Titolo originale: Diamonds Are Forever
Regia: Guy Hamilton
Con Sean Connery, Jill St. John, Charles Gray, Lana Wood, Bruce Cabot, Jimmy Dean
in streaming: su Apple TV Rakuten TV Amazon Video Google Play Movies Amazon Prime Video Timvision
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