Una settimana fa vi proponevamo la storia finta di una coppia di simpatici disperati inglesi che si imbatteva in un carico di cocaina finito casualmente spiaggiato sulle coste di un brutto villaggio inglese. Parlavamo di fratelli Coen, di vicende bizzarre che fanno da innesco all’innata idiozia umana e, con una sana spruzzata di fato ironico, finiscono per diventare sceneggiature perfette per storie incredibili. Storie che ti fanno pensare: certo che gli sceneggiatori delle serie tv certe volte se ne inventano di belle per essere originali e accalappiare la nostra ondivaga soglia dell’attenzione, resa sempre più flebile da un mondo dell’intrattenimento che se non ci ricompensa con una spruzzata di endorfine ogni trenta secondi – proprio come le slot machine – ci perde e non ci recupera mai più. Chissà come riescono a creare certi mondi, centri intrecci assurdi e improbabili, certe premesse che appaiono impossibili e che poi diventano plausibili grazie al talento artigiano di scrittori scalpellini. Ecco. Per rimanere in tema di ironia coeniana, lasciatevi sussurrare la semplicissima soluzione: è sempre la realtà a ispirarli, ed è sempre la nostra dabbenaggine unita a un destino beffardo a permettere alla vita vera di diventare l’unica vera fonte di storie da raccontare su schermi di qualsiasi foggia, dimensione e provenienza.
La serie di questa settimana si chiama Far North, è neozelandese e ha un meraviglioso episodio pilota che, sui titoli di testa, annuncia di essere Mostly based on an unbelievable true story. E sapete qual è l’incredibile storia vera capitata nel 2016 che ha ispirato questa serie orgogliosamente autarchica, isolana e anche un po’ aborigena? Quella di una tranquilla coppia di neozelandesi – alle prese con normalissimi problemi come l’artrite reumatoide del loro golden retriever – i quali, guarda un po’, un bel giorno scoprono sulla spiaggia del paesino in cui abitano 500 chilogrammi di metanfetamine abbandonati lì da una task force di narcotrafficanti internazionali con base nel sud della Cina e con l’appoggio locale di gente di malaffare che opera ad Auckland, la capitale dell’isola.
A dire il vero la narrazione si apre con una donna, Heather (che in Nuova Zelanda a quanto pare si pronunzia Ida) che insegna acquagym in una piccola piscina comunale e – giustamente, perbacco, visto che insegna acquagym – sta incazzata come una belva con l’universo intero ma non lo dà a vedere. Si sfoga prendendo a pugni l’acqua della piscina. Non è solo l’acquagym che le rovina la vita, però. Deve essere anche quella macchina piena di cinesi sgherri di narcotrafficanti che se ne sta costantemente parcheggiata fuori da casa sua e del marito Ed; fortunatamente ci pensa un vicino matto a farla fuggire a colpi di mazza da baseball e urla belluine. Benvenuti in Nuova Zelanda, per qualcuno terra di Hobbit e seconde e terze colazioni, per altri luogo certamente ameno ma chissenefrega del panorama se dobbiamo spacciare droga a livello internazionale.
È il momento di tornare indietro di poco più di un mese. Auckland, 12 maggio 2006. Una donna si informa con il suo complice, assicurandosi che sia tutto pronto per le cose losche che stanno per realizzare insieme: accogliere e gestire un ingente carico di droga proveniente dall’Asia. A Canton, nel sud della Cina, Lin, ex tossicodipendente e ragazza madre di una bimba bisognosa di cure, viene prelevata da un’altra donna, Jin, per un viaggio di 25 giorni come corriere di una partita di metanfetamine.
Lavorano tutte e tutti per un’associazione nota come The Company, gestita manu militari da Cai, organizzatissimo amministratore unico dell’azienda di smercio stupefacenti posseduta dall’enigmatico e potente signor Tse. Cai lavora facendo fitness e guardando ASMR di gattini che fanno le fusa, ed è il temibile braccio armato di un signore della droga che fa le cose turpi a chi lo sgarra, tipo gambizzare gente, garrotare parenti stretti o spammare su whatsapp le GIF buongiornissimo kaffé!!?!!?. Il signor Tse è appena entrato in affari, per la prima volta, con spacciatori neozelandesi per piazzare anche in quella parte del mondo le sue ineffabili droghe sintetiche.
Dalla parte cinese della transazione troviamo donne capaci, toste e disperatamente bisognose, tutte (tranne Lin) abituate a certi malaffari. Dalla parte neozelandese abbiamo un gruppo di Maori wannabe gangster più o meno tonti, che fino al giorno prima spacciavano al massimo 50 grammi alla volta e all’improvviso si trovano in affari per gestire quintalate di roba illegale. Quasi tutto il pilota è raccontato dal punto di vista di questi muli, pedine sacrificabili che trasportano la droga da una parte all’altra perché la vita, più o meno, non ha concesso loro di fare altro.
Non sono macchiette. Sono sì figure un po’ tragicomiche, ma non sono crudeli narcotrafficanti dal grilletto facile. Sono persone – aborigeni da una parte e donne in difficoltà in una società piuttosto patriarcale dall’altra – che non hanno mai avuto le stesse opportunità offerte a tutti gli altri e che si arrangiano come possono, ognuno con le proprie motivazioni più o meno valide. Lo scambio di merce tra le due parti avverrà in un piccolo paese marittimo a 340 chilometri da Auckland, Ahipara, nell’estremo nord del paese. Che è anche il titolo della serie!
Meraviglia, i pezzi del puzzle combaciano alla perfezione. Ovviamente, però, quando manca solo l’ultimo passo prima della consegna, il destino si mette di traverso, l’imbarcazione operata da Jin e Lin ha un malfunzionamento tecnico e noi – al contrario di quanto succede con Boat Story – rimaniamo appesi con l’ansia di sapere com’è successo che Heather ed Ed si siano trovati a sopportare degli stalker cinesi che rivogliono indietro la loro merce.
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