Gli Oscar sono appena passati, e anche chissene. Detto questo, è sempre possibile ricavare qualcosa di interessante anche dal più vacuo degli eventi hollywoodiani. Ryan Gosling ci ha ricordato che le gentildonne preferiscono i biondi, Billie Eilish era affumicata come la cappa di una mensa scolastica, John Cena nudo e senza cacchio, e Nicolas Cage che ha fatto Nicolas Cage ricordandoci quanto ideale potrebbe essere il mondo dell’intrattenimento se qualcuno si decidesse a clonare migliaia di Nicolas Cage. In quello stesso segmento, la presentazione dei cinque candidati all’Oscar come Miglior attore protagonista, (l’autore che ha scritto il breve papiello per) Matthew McConaughey definisce Bradley Cooper – attore, regista, sceneggiatore e produttore di Maestro – come un “modern day Renaissance man”, un moderno genio universale.
Ai tempi dell’umanesimo rinascimentale che riscopriva il suo amore per la cultura classica greca e romana, il genio universale era quella persona che riusciva, per talento, a brillare in campo artistico, letterario, scientifico e sociale. Era il filosofo matematico poeta assessore all’urbanistica cuoco amante spazzacamin della situazione. Erano altri tempi. Oggi il genio universale moderno fa i film o al massimo le serie tv (Donald Glover). Negli Stati Uniti. Da noi, il genio universale moderno fa il presentatore e l’autore televisivo, il calciatore, l’attore, lo scrittore di romanzi, lo speaker radiofonico, l’influencer, il cantante di pezzi volontariamente trash e adesso anche il comico di stand-up.
Voi – maliziosi che non siete altro – siete convinti che stia cercando, girandoci intorno codardamente, di spalare del letame snob su Alessandro Cattelan, che ha esordito in questi giorni con il suo primo speciale comico (Salutava sempre) disponibile su Netflix; e invece sono qui per dirvi: proviamoci, voi e io tutti insieme, a essere davvero bravi in qualsiasi ambito del lavoro che ci siamo scelti o che ci è toccato in sorte, noi che se ci troviamo costretti a dover cambiare la cartuccia del toner dobbiamo implorare il tecnico di salire dalle cantine dove è tumulato per venirci in soccorso. Cattelan, invece, la stampante se la aggiusta da solo e nel frattempo la intervista pure, gioca insieme a lei un’impossibile partita di sasso carta forbici e ci cava fuori un segmento di sette minuti che – a seconda di quanta banda internet stiano occupando i Ferragnez in quel preciso momento con le loro menate – probabilmente diventerà virale.
Ehggià, Alessandro Cattelan – celebre per essere il più versatile tra i futuri Gerry Scotti, essendo agilmente passato dai fasti giovanili di MTV al ruolo di maggiordomo di lusso in X-Factor, finendo per diventare l’esegeta nostrano del late night show all’italiana prima su Sky e ora in Rai – si è dato alla comicità stand-up. E l’ha fatto senza arroganza, attingendo con umiltà dall’esempio e dai consigli dei professionisti che (come richiede la tradizione statunitense) ospita a Stasera c’è Cattelan su Rai 2, ma anche accettando di spillare sudore comico con un tour senza telecamere necessario ad affinare lo spettacolo e a prendere confidenza con il nuovo linguaggio. Insomma, non dico che abbia fatto la gavetta; ma si è sicuramente messo in gioco senza pretendere nulla. E già così, sarebbe meritevole di tutta la stima del mondo, in quanto professionista che porta il giusto rispetto a una forma di artigianato dell’intrattenimento diversa rispetto a quella a cui è abituato.
Oltre al rispetto, però, c’è anche dell’ammirazione. Salutava sempre è uno spettacolo di stand-up buono, a tratti davvero davvero buono, qualche volta sorprendente e sicuramente scaltro, nel miglior senso della parola. Cattelan è brillante perché parla di ciò che sa, senza cadere nel ridicolo dello scimmiottamento di altri comici. Parla di televisione, del meccanismo produttivo, del dietro le quinte; di Maria De Filippi in cima alla piramide, satrapa predatrice alfa dello show business italiano. Inserisce nel suo monologo anche argomenti correlati, ma più intimi. Tutto lo spettacolo gira attorno al concetto di morte e inizia come un funerale, con tanto di bara sul palco. “Chi vuole dire qualcosa su Alessandro?” Si alza Cattelan dalla platea cantando un pezzo trap pesantemente autotunato che si conclude pure con un ologramma 3D dello stesso Cattelan che canta in lip sync Unchained Melody. Cattelan si infila nella sua stessa bara, viene sollevato, il meccanismo si inceppa: era tutto un trucco, “Manco morto mi facevo mettere lì dentro”. Il tutto per richiamare e sottolineare un concetto ben preciso: per chi lavora nello spettacolo c’è una paura doppia della morte. La morte come persona, è vabbè, che ci puoi fare; e la molto più tragica morte del personaggio, il dimenticatoio. Molto onesto.
Da questo trampolino, Cattelan sfocia nel magico mondo del surreale, raccontando le idee di tv rivoluzionaria che gli sono state bocciate, come il cinico show Morto o non lavora da tanto?, messo davvero in scena con l’aiuto di un membro del pubblico scelto a caso. Il bambino della Kinder è morto o non lavora da tanto? Il commissario Rex è morto o non lavora da tanto? Il concorrente ci pensa sulle note di Year Zero di Ghost, una delle canzoni più usate su TikTok insieme al jingle rallentato di Grissinbon. Bravo e furbo, Cattelan. Che per mascherare le fisiologiche mancanze da comico di stand-up inesperto ricorre a tutto ciò che ha imparato nella propria ventennale carriera televisiva, imbastendo uno show scenografico, musicale, olografico e interattivo senza che il fulcro di Salutava sempre – la comicità – venga intaccato o perso di vista. Ogni tanto si lascia anche andare alla tentazione di mirare alla punchline che cresce sul ramo più basso e più comodo dell’albero comico – quando i commercialisti muoiono vanno nel paradiso fiscale – ma lo fa con il giusto tono scanzonato e ammiccante, con lo charme fanciullesco che lo contraddistingue, consapevole della cazzatona che ha detto e perfettamente in controllo della situazione.
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