Il luogo comune per eccellenza – quello con l’articolo determinativo e in questo caso, guarda che fortuna, anche la maiuscola – sulla gente che di mestiere ci fa ridere l’ha raccontato meglio il Rorschach di Watchmen, commentando la morte del Comico con la barzelletta sulla paradossale cura per la tristezza che un dottore prescrive al clown Pagliacci: andare a vedere lo spettacolo del clown Pagliacci. O come dice il comico Howie Mandel: “La stand-up è una malattia. Chi vorrebbe una sala piena di gente che ti ride in faccia solo perché sei te stesso?”. Jenny Slate è una valida attrice e una super doppiatrice che potrebbe vivere e prosperare ed essere famosa e felice e ricca solo con quelle due attività lì. Ma fa anche stand-up, eccome se fa stand-up, e quando sale sul palco nella sua versione da comica mi fa sempre venire in mente le due citazioni qua sopra. Come se Slate fosse una sorta di campionessa di quella categoria di monologhisti che sembra prendere ogni spettacolo come una sessione di psicoterapia in pubblico.
Succedeva nel suo primo speciale, Stage Fright – recensito come “Un ritratto intimo e assai ebraico” dal The Times of Israel, vi ho visto con la gocciolina di sudore che stava per scendere – e cinque anni più tardi la bella storia si ripete sicuramente anche nel bis appena pubblicato su Prime Video, intitolato Seasoned Professional. E badate bene che gliel’ha detto l’ipnotista che lei è una professionista consumata, dunque adesso ci crede talmente tanto da averlo usato come titolo. Il secondo speciale di Slate prende carica, come una dinamo, man mano che la performer guadagna dimestichezza e sente l’appoggio del pubblico. È davvero un sottile equilibrio, quello di far ridere molta gente mettendo in piazza i propri demoni – oltre che le proprie opinioni – perché basta un attimo di distrazione per dimenticarsi che stanno ridendo con te e per merito tuo. La prima parte dello spettacolo è rallentata da un’enormità di interiezioni inutili nel discorso – una serie infinita di “like, like, like, like”, che sarebbero i nostri “cioè” e “tipo” – che un po’ fanno parte della maschera comica di Slate, un po’ sembrano sfuggirle di mano per una questione emotiva.
La persona comica di Slate, per sua stessa ammissione, rimane sempre quella della ragazza ebrea divertente ma che si sente bruttarella, impacciata, brillante e svampita allo stesso tempo, goffa, adolescenziale, emotiva, viziata – “Tutte le volte che ero costretta a fare qualcosa che non volevo, riuscivo sempre a trovare il modo per mollare o per farmi licenziare”. La differenza è che adesso è diventata mamma, ma la cosa bella è che non vuole rinunciare a essere se stessa. Ha speso troppi soldi in terapia per rinunciare a essere se stessa proprio adesso, dopo aver imparato ad accettarsi. E allora compara le riflessioni esistenziali sulla propria esperienza in gravidanza con quella volta che ha ricevuto una mail in cui veniva invitata a partecipare alle audizioni del nuovo adattamento di It per il ruolo di Pennywise, il clown maschio pelato e calvo che rapisce e uccide bambini. Si chiede: è giusto che sia andata così? Sono adatta a quello che sta per succedere? Direi di no, vero? Come può una ragazza (di 41 anni) come me, affetta da una dipendenza da microfoni, essere adatta a un’esperienza come quella della gravidanza o a un ruolo come quello di Pennywise?
È il paradosso del disagio. Slate sa benissimo di essere adatta a tutto – anche se per indole non è adatta a niente – perché poi la sua natura di comica trasformerà ogni esperienza in un bit. Come quello sull’eroico destino delle sue tette – anche se sta cercando di modificare il suo modo di parlare per essere percepita meno come una sciocchina, dunque vorrebbe implementare nel suo vocabolario l’utilizzo del lemma “seni” – che, da perfettamente ok com’erano, dopo la gravidanza si sono trasformate in bombe atomiche kawabonga party in the USA, ma in seguito l’allattamento si sono svuotate alla velocità di un palloncino e adesso assomigliano a un mix tra un pancake e una piuma. È quasi tutto capezzolo ormai. O quando racconta un’incredibile storia di diarrea giovanile – causata da un’intolleranza al lattosio ignorata pur di non essere considerata sfigata dai compagni di classe – che fa scaturire un “Oooh” di compassione dal pubblico, al quale Slate risponde dicendo “Grazie, grazie davvero, sul serio. Mi piacerebbe se faceste un vocale con questo suono, così stasera quando torno a casa posso masturbarmi mettendolo come sottofondo”. Ma il meglio della comicità psicoanalitica di Slate arriva solo alla fine, con un ultimo grandioso bit in cui trasforma i suoi incancreniti e variegati complessi materni in una fantasia lynchiana erotico-psicologica che ha per protagoniste la sua terapista e la figlia di lei.
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