C’è un prologo nel 1958, a Città del Messico. Un riccuomo del posto – uno da villa con la scalinata in marmo, da domestica che dorme con i trini addosso, da cassaforte dietro al brutto quadro nello studio e da telefono di casa con la cornetta a forma di manico dorato – è al teatro dell’opera a sbronzarsi serenamente con la moglie per mezzo di alcolici costosi ma robusti, quando un truffatore che si finge il suo avvocato riesce a farsi aprire la porta approfittando dell’ingenuità della servitù e rubando gioielli e contanti. Senza colpo ferire e anche con discreto charme.
Ventiquattro anni dopo la prima pagina di un giornale ricorda la cattura di El Mantequilla, avvenuta ormai due decennii or sono, e l’identikit che accompagna l’articolo ricorda vagamente l’adorabile fazza da sberle del prologo. Abel, un bel travet che ha una mascella troppo cesellata per lavorare in una compagnia d’assicurazioni, viene messo sotto pressione dal superiore per sbrigarsi a vendere questa maledettissima polizza diamante a quel cliente lì. Abel riesce a gabbare la moglie dell’intestatario, viene sgamato in tempo zero e si trova costretto a restituire di proprio pugno un sacco di soldi, oltre a prendersi una spettinata neanche normale (“Solo le persone mediocri commettono errori” si vabbè ma stai anche calmo). È tutto un contro-raggiro però: mentre Abel sembra sorbirsi la ciccia cospargendosi il capo di cenere e promettendo un pronto rimborso, in realtà sta raccogliendo gli elementi necessari per impersonare il suo cliente in banca e riuscire a svuotargli il conto. Senza colpo ferire e anche con un discreto charme. Accidenti, cosa sta succedendo? El Mantequilla è per caso tornato? Vent’anni fa hanno arrestato il sospetto sbagliato?
Sulle tracce di Abel che non sappiamo chi sia in realtà c’è l’investigatrice della polizia Elena, raccomandata dall’influente padre per la promozione a detective e da tempo in attesa che le venisse assegnato il suo primo caso per dimostrare tutto il proprio valore. Attaccato a lei come una remora il giornalista alle prime armi Pablo, uno smilzo in cerca del suo primo scoop – o semplicemente di un articolo da vendere.
Poi succede che Abel svesta una volta per tutte la maschera da agente immobiliare – visto che aveva la mascella troppo cesellata per fare quel mestiere lì? – e, vestito con la combo dei vincenti (polo+maglioncino sulle spalle legato davanti), alla guida di una decappottabile raggiunge una casa fastosa dove ad attenderlo c’è una bionda di spalle e in vestaglia, che lascia la sigaretta nel posacenere e, con lo stesso tono che fa un setaccio quando separa l’oro dalla sabbia, dice a Julián che le è mancato un sacco. Ma come Julián? È un altro barbatrucco o stavolta è la vera identità? Voi mi volete male – pinche cabrones, con tutto l’affetto del mondo – non potete lasciarmi con tutte queste domande dopo un’unica puntata.
Non fosse che, poffare, questo è esattamente il modo corretto di fare televisione narrativa e di invogliare qualcuno a sintonizzarsi di nuovo la settimana successiva (o a recuperare la serie altrimenti) senza per forza ricattarlo con un cliffhanger artefatto, ma solo raccontando una storia il cui scheletro è fatto di doppio gioco, di inganno, di finzione, di messa in scena e di sospensione dell’incredulità. Siete bravi, complimenti. Ecco, dopo il pilota non ho la minima idea di dove possa andare a parare questa adorabile serie messicana che svia e svicola, intitolata giustamente e per semplicità El Mantequilla; se non per un breve accenno alla madre morente del protagonista, non ho un quadro preciso nemmeno ragionando in generale e scansionando gli archetipi più comuni del linguaggio televisivo. E – da spettatore che non andrà mai e poi mai sulla pagina di IMDb della serie dove si trovano fin troppi spoiler alle puntate successive – è un’ottima sensazione.
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