Titolo alternativo – della rubrica e dell’inesistente adattamento italiano dello speciale stand up di Mike Epps – Il comico al contrario. Voi l’avete letto il libro del degenerale Vannacci, Il mondo al contrario? Non sarebbe stato meglio intitolarlo Il mondo alla rovescia, che suona meglio e veicola pure un concetto già pronto all’uso? Io il libro di Vannacci l’ho iniziato, ma non l’ho finito. Non l’ho finito non tanto per lo sfoggio orgoglioso di ignoranze varie, per la retorica fallata da preconcetti retrogradi e smentiti numerose volte in sedi decisamente più autorevoli o perché il libro ha esattamente la faccia di quello che ha scagliato la prima pietra e poi ha fatto lo gnorri indicando il disabile nero gender fluid che aveva a fianco. Non l’ho finito perché è scritto male. Non “non bene”, proprio male. E non dall’alto di Gadda e Calvino che ne discutono amabilmente davanti a buon porto, proprio dal punto di vista di una professoressa delle medie che corregge il tema di un quarantenne kosovaro iscritto alle serali perché deve rifare tutti gli studi per recuperare la laurea in ingegneria chimica che aveva in patria.
Il 53enne Mike Epps è un comico al contrario rispetto a quello a cui siamo abituati qua ai margini dell’impero, dove arriva solo una frazione della comicità che viene prodotta negli Usa. È un retrogrado legato a una forma di umorismo che a metà degli anni 90 era quasi necessaria per sfondare dal basso nella nicchia della stand up afroamericana. Epps ha sempre fatto vanto – nel suo modo di atteggiarsi sul palco e per le tematiche che sceglie – di essere un vero nero, un real n word, quelli che nel celeberrimo monologo di Chris Rock stanno dalla parte sbagliata dell’equazione. Alla fine di Ready to Sell Out (“Pronto per svendermi”), però, dice anche che comincia a invecchiare e che certe cose da duro e puro forse cominciano a essere faticose. Si dichiara pronto a calare le braghe al grande pubblico come hanno fatto prima di lui Kevin Hart, Will Smith e, per qualche strana ragione comunque piuttosto divertente, anche Tom Hanks. Non è così facile, però. Epps ha avuto il successo che ha avuto – tour in teatri pieni, speciali su Netflix e una solida carriera da caratterista a Hollywood (solo negli ultimi anni: Dolemite Is My Name, Madame Web, Sono vergine e un episodio di Winning Time nei panni di Richard Pryor) – perché è riuscito a crearsi un pubblico folto ed entusiasta, che quando viene a sentirlo pretende quelle cose lì, da essere mitologico metà Dave Chappelle e metà Roberto Vannacci. Epps è prigioniero della persona comica che gli ha fatto ottenere soldi e celebrità, pur essendo consapevole di vivere in un mondo che è andato avanti. Il risultato certe volte è straniante, altre interessante.
All’inizio di Ready to Sell Out, Epps ci mette dodici secondi di numero a chiarire implicitamente una verità: qua non si ciurla il manico con cagate da comici moderni, strane forme di narrazione, regie e scenografie particolari; qua si mastica un’allegorica cingomma, ci si fracca il simbolico cappello in testa, ci si rimbocca le proverbiali maniche e si va a far legna comica. Qua si raccolgono le battute, si raccontano le barzellette, si passa un’oretta a teatro a sentire le storie buffe e poi tutti a casa che di stasera ho altri quattro spettacoli in tre posti diversi. Un resoconto un po’ esagerato – specie la parte dei quattro spettacoli – ma le energie sono quelle del vecchio satrapo comico che da decenni fa i giri nei locali rigorosamente fumosi e ha un aneddoto per ogni singola città degli Stati Uniti. Continuando ad affidarsi alla massima del “conosci il tuo pubblico ed esibisciti di conseguenza”, per scaldare il suo tutto esaurito nel teatro del casinò di Phoenix, Epps snocciola battute sulle ragazze secche a cui puzzano le ascelle e sui maschietti a cui prude il culo perché non si sono puliti bene. Non chiede “Avete mai conosciuto qualcuno che sia uscito di prigione più in fretta di Donald Trump?”. Chiede “Voi siete mai usciti di prigione più in fretta di Donald Trump?”, sottile ammissione su ciò che si aspetta dal proprio pubblico: che più di uno fra loro sia stato in carcere, e che qualcuno ci sia passato anche più di una volta. È crasso, volgare, punta dritto alla pancia del suo pubblico e la gente in sala si ribalta sulla sedia.
Quando si racconta, inoltre, il suo personaggio è ad altezza occhi con il suo pubblico. Come quando immagina cosa avrebbe fatto al posto di Chris Rock quando è stato schiaffeggiato da Will Smith in diretta mondiale sul palco degli Oscar: “Sarei caduto a terra con le convulsioni e avrei fatto la scena completa, con tutti i soldi che ha quello. Mi sarei buttato per terra e poi gli avrei fatto causa come se non ci fosse un domani al caro vecchio Willy. L’avrei portato dritto a Forum per farlo processare in tv. Vostro onore, chiedo di essere in almeno tre film insieme a lui”. O come quando racconta le sue passate acrobazie con la cocaina. Anche se poi riesce a tirare fuori certe chicche di sottigliezza che ormai non ti aspetti (“Cosa ti piace di più della coca?” “Mi piace il suo odore”) e riesce a trasferire ai giorni nostri il suo umorismo anni 80, contestualizzandolo in un mondo in cui la psicoterapia è un’attività più che normale – quasi ogni faccenda pop-culturalmente rilevante uscita dagli anni 80/90 è stata partorita da una generazione patriarcale che si vantava di non considerare nemmeno l’idea di andare in terapia perché i sentimenti sono roba da femminucce. Epps è anche in grado di cambiare marcia, dunque, attraversando diversi livelli di comicità. Senza perdere la stanca maschera da real n word che gli fa vendere tutti quei biglietti.
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