La premessa più o meno la sappiamo, ma non fa mai male ripassare – specialmente se nel 2012, quando è uscito il primo film di Ted, avevate già più di 17 anni e il vostro rapporto con le droghe leggere e l’irresponsabilità non è mai stato così sbarazzino. Nel 1985 il piccolo John Bennett esprime un desiderio dopo aver visto una stella cadente. Azzecca la stella giusta – mica quelle antipatiche che sono in debito di una dozzina di turista per sempre vincenti e di amori della nostra vita – ed essa avvera gentilmente il suo sogno più grande: crescere, diventare Mark Wahlberg, picchiare qualche vietnamita a caso, scrivere qualche discutibile pezzo finto rap firmandosi con un altrettanto discutibile nome d’arte, per poi riscoprire la fede in Iddio padre onnipotente e sfogarla in una routine insensata per qualsiasi altro essere umano; oltre a questo, la stella accetta anche di infondere vita, libero arbitrio e (più o meno) intelligenza nel suo migliore amico, l’orsacchiotto Ted con la voce di Seth MacFarlane, creatore e doppiatore dei Griffin, di American Dad! e di un altro cartone di cui non parleremo perché sarebbe meglio stendere numerosi veli pietosi. Alla fine degli anni 80, Ted ha una meteorica carriera da ospite nei talk show televisivi come fenomeno del momento, ma presto tutti si dimenticano di lui e ventisette anni dopo aver preso coscienza diventa il co-protagonista di un paio di film sboccati, che raccontano la parabola di crescita di due trentacinquenni migliori amici immaturi ed edonisti – l’umano e l’orsacchiotto – che diventano finalmente adulti dopo innumerevoli parapiglia e blablabla.
Questa serie qui – a sorpresa non una sitcom (seppure i toni e la cornice siano ispirati al genere) ma una comedy con tutti i crismi e lo sviluppo orizzontale del caso – è un prequel duro e puro sugli anni adolescenziali di Ted e John, creato, diretto e (ci mancherebbe) doppiato da MacFarlane per Peacock, il servizio streaming di NBC privo di sfogo diretto sui canali distributivi italiani; visto il richiamo dei due film, però, Ted (la serie) presumibilmente, prima o poi, con tutta probabilità verrà proposta anche dalle nostre parti. Anche perché laddove la coppia di lungometraggi era un fulgido esempio di commedia nostalgica, e financo un po’ trombona nel raccontare i tentativi di raddrizzamento di due personaggi rimasti bloccati all’inconcludenza della loro giovinezza anni 90, nel caso di questa serie prequel il problema non si pone: i protagonisti sono effettivamente adolescenti e la storia si svolge negli anni 90. MacFarlane può dare sfogo come se non ci fosse un domani alla sua enciclopedica conoscenza della tv generalista dell’epoca, sfornando riferimenti oscuri che non escono più dalla bocca che sa di vecchio di due bamboccioni tristemente ancorati al proprio passato, ma da quella topica di due ragazzotti che, come tanti altri loro coetanei a qualsiasi latitudine, si spaccano di dozzinali sitcom pomeridiane e di film da cassetta. Riferimenti pop che poi, fisiologicamente, diventano parte del loro linguaggio, del loro modo di scherzare e delle loro conversazioni che si basano su un vuoto assoluto spesso divertente.
Il pilota funziona più o meno così: tediato da una vita passata a guardare OK il prezzo è giusto, dopo aver causato l’ennesimo disastro domestico provocato dalla noia Ted viene obbligato dai genitori di John – Matty, veterano del Vietnam profondamente bostoniano (film preferito: Rocky) e Susan, tenera timorata di dio – a frequentare il liceo insieme al migliore amico. Ted non è particolarmente d’accordo, senza contare che l’idea è venuta dalla cugina Blaire, inquilina extra dei Bennett mentre frequenta il college, che spinge l’orsacchiotto a farsi una cultura per smettere di essere così ignorante in pensieri, parole, opere e (man)omissioni. Ted regge meno di mezza mattinata a scuola prima di farsi venire un’idea: si farà beccare con della marijuana, si farà espellere e tornerà a passare le sue mattinate facendo la larva sul divano e commentando come gli pare e piace su tutti i nani e i polacchi di questo mondo e anche di quell’altro. Fanculo alla cultura.
L’unico fornitore d’erba con cui i due amici riescono a venire in contatto, però, è proprio la progressista Blaire. La situazione precipita esattamente come potreste immaginarvi – John e Ted decidono di provare la spezia del diavolo, la apprezzano grandemente, vengono scoperti da Matty invece che dalla preside, succede un putiferio, il putiferio viene risolto con una grossa dose di comicità crassa e assurda – e adesso tutti i fan dei due film conoscono la origin story dell’accentuata passione che la coppia di amici interspecie ha sviluppato per canne, bong, cilum, biscotti corretti, vaporizzatori, pipette e tutto l’armamentario necessario a inalare THC.
Il pilota di Ted funziona per svariati motivi, anche se non siete particolarmente fan dell’umorismo scatologico e adolescenziale di MacFarlane. Innanzitutto, come detto, l’ambientazione anni 90 cancella quel senso di vuoto cosmico nostalgico in cui navigavano i due film (specialmente il primo). Lo ben so che Ted (il film) è una storia che parla di amicizia, di crescita personale senza per forza snaturarsi e del potere della lealtà fraterna in un mondo in cui è davvero difficile trovare qualcuno che ti voglia sinceramente del bene. Ma non mi stupirei se qualcuno lo descrivesse come una lunga, lunghissima scorreggia. Niente di male peraltro: a piccole dosi, la flatulenza è spesso divertente. Ted (la serie), però, perde quell’aura di vuota inutilità anche stilistica, riallacciandosi agli archetipi e gli stilemi di quella stessa tv che MacFarlane ama così tanto citare; cosa che Ted (il film) non poteva permettersi. In ultimo, il pilota della serie prequel funziona per un altro magnifico motivo: il giovane protagonista Max Burkholder – che forse ricordate per il ruolo del figlio minore, affetto da sindrome di Asperger, in Parenthood – è bravo forte anche con i toni della commedia. Anzi. A essere onesti è molto più bravo di Mark Wahlberg.
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