Sullo sfondo della storia di Anna Delvey compare, un paio di volte, quella del Fyre Festival, colossale truffa (e fonte di gustosa Schadenfreude collettiva) ai danni di giovani ricchi statunitensi, che invece che a un evento esclusivo si son trovati spiaggiati in tende da campo in mezzo alle intemperie tropicali.
Le due vicende hanno qualcosa in comune, cioè la determinazione con cui fingono opulenza e sfrecciano invece verso il disastro, chilometri al di sopra dei propri mezzi. Ma sono anche speculari, perché a differenza di Billy McFarland (il fondatore di Fyre), Anna sa benissimo quello che sta facendo, conosce perfettamente il mondo in cui si muove e come piegarlo ai propri scopi; e dopo lo schianto, una volta smascherata, invece che disprezzo attrae attorno a sé un’inspiegabile solidarietà.
Anna Delvey/Anna Sorokin esiste davvero, è nata in Russia, è cresciuta in Germania e qualche anno fa è sbarcata a Manhattan dando a intendere a chiunque di essere quel tipo d’ereditiera talmente ricca da non avere nemmeno il senso di cosa sia davvero il denaro. Per mesi è vissuta a sbafo, ospitata tra ville e yacht dell’1%, o in alberghi extralusso da cui poi spariva senza saldare lo stratosferico conto.
La storia di Anna Delvey è anche la storia di un articolo del “New York Magazine” scritto alla vigilia del processo per frode e diventato virale: l’intuizione migliore della prima serie creata direttamente per Netflix dalla regina della tv generalista Shonda Rhimes è proprio quella di includere nel quadro anche la cornice, rendendo co-protagoniste, quasi al pari di Anna, la giornalista che l’ha resa celebre (seppur cambiandole il nome, da Jessica Pressler a Vivian Kent) e la sua lunga inchiesta.
Perché, ripetono tutti per l’intera durata dello show, Anna Delvey è un mistero da decifrare; ma soprattutto perché questo è un affare d’immagini e menzogne, di Sogni americani e di (show)business, di vero e di fake, e dunque, sì, anche di (social) media e di giornalismo (tra i personaggi più divertenti c’è il coro greco di anziani reporter, mandati a svernare nell’angolo peggiore della redazione, rinominato “Scriberia”).
Rhimes fa quello che sa fare meglio, cioè intrattenere con glamour (la regia è spesso del David Frankel di Il diavolo veste Prada), ritmo e la stessa faccia tosta delle sue eroine (e Anna, pur con l’incomprensibile accento scelto dalla comunque ottima Julia Garner, prende felicemente posto accanto a Annalise Keating e Olivia Pope nella galleria di star Shondaland); ma a quella che aveva tutte le carte in regola per essere una pungente american crime story manca il successivo passo d’ambizione, e ci si ferma sempre un attimo prima sia di provare davvero a sciogliere l’enigma Anna Delvey sia di trovargli una corrispondenza più ampia con lo spirito del tempo e con l’istantanea della contemporaneità.
Non l’aiuta il temibile “lievito Netflix” che porta a nove episodi da minimo un’ora l’uno un plot che in abili mani sarebbe stato perfetto per un film di due ore. Ma forse il punto più importante sta nella cornice della cornice: per cedere a Netflix i diritti della sua «storia vera fatta di parti inventate», Anna Delvey s’è intascata un bottino di 320 mila dollari.
La serie tv
Inventing Anna
Drammatico - USA 2022 - durata 65’
Titolo originale: Inventing Anna
Creato da: Shonda Rhimes
Con Julia Garner, Anna Chlumsky, Anthony Edwards, Arian Moayed, Emilia Pieske, Laverne Cox
in streaming: su Netflix Netflix basic with Ads
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