Il primo vagito comico del 2024 doveva per forza essere quello di Ricky Gervais: un nome troppo grande, conosciuto e riconoscibile per non dedicargli il giusto tempismo. Però c’è un però. Iniziare l’anno con quelle energie lì del discutere, polemizzare a ogni costo, prendere per il culo facendo la linguaccia perché gnègnè, essere divisi sempre e comunque: è pur vero che è la nostra natura, a quanto pare, quella dello scontro che crea la scintilla che fa crescere l’idea che porta all’evoluzione sociale che porta a un miglioramento – si spera per più persone possibili; ma è anche una faccenda molto stancante, molto stressante. Siamo tutti abbastanza nevrotici, sembra. Tutti pronti, da una parte e dall’altra delle varie barricate, a criticare, puntigliosare, indignarsi, giudicare. Dunque, piuttosto che gettare dell’altro napalm su un qualche popolo indifeso parlando del (pur eccellente) nuovo spettacolo di Dave Chappelle (The Dreamer, sempre su Netflix) ci prendiamo un lunedì di serenità e ci guardiamo tutti insieme il nuovo, placido – ma non innocuo – speciale di Trevor Noah. Uno che se i comici fossero delle droghe, lui sarebbe di quella marijuana gentile gentile, ingegnerizzata con un livello psicotropo di THC abbastanza contenuto da permettere un’esistenza funzionale ricca di risatine, ma abbastanza elevato da non annullare del tutto la paranoia. Non viviamo mica nel mondo delle favole.
Dove era rimasto Trevor Noah? Così si chiama il suo nuovo monologo Netflix, Where Was I. Che addirittura non è nemmeno una domanda. È semplicemente un modo per ricominciare il discorso da dove si era interrotto l’ultima volta, poco più di un anno fa, con lo spettacolo I Wish You Would. Solo che nel mezzo, stavolta, sono successe alcune cose – sia nel mondo, sia a Noah. Il comico sudafricano, infatti, è andato per la prima volta in tour con uno show di stand-up dopo aver appeso al chiodo il completo camicia e cravatta e la scrivania del Daily Show. Dopo otto stagioni passate a non far rimpiangere il seminale Jon Stewart in testa a una delle più clamorose fucine di talenti comici e satirici dell’ultima generazione (Steve Carell, Ronny Chieng, Ed Helms, Stephen Colbert, John Oliver, Hasan Minhaj, Rob Riggle, Roy Wood Jr., Michelle Wolf, Samantha Bee), Noah ha scelto una vita meno frenetica rispetto a chi conduce quattro sere a settimana un impegnativo programma tv che va scritto, prodotto, performato, registrato e montato. Noah adesso ha un podcast e gira per il mondo con il suo spettacolo. Dice che si è goduto gli Stati Uniti come non mai nell’ultimo anno di tour: dev’essere per quella sensazione che ti fa gustare meglio qualcosa quando hai il dubbio che stia per finire. L’ultima stagione di una serie particolarmente divertente.
Per indole e per via di una biografia personale da cittadino del mondo – oltre che nel suo rapporto con lo showbusiness e con il linguaggio comico –, Trevor Noah è sempre stato il meno statunitense fra tutti i comici di stand-up di caratura internazionale. È aperto, accogliente, ponderato, empatico, incredibilmente curioso riguardo a ciò che non conosce, pacato, umile, morbido, in grado di ascoltare comprendere ed elaborare il punto di vista altrui senza imporsi. Nonostante tutto, è anche il comico che ama di più gli Stati Uniti. O meglio: che ama di più l’ideale a cui metà degli Stati Uniti, o giù di lì, aspira. Allo stesso tempo, Noah è anche ben consapevole di chi è lui e di come funziona davvero il luogo in cui si trova; le modalità con cui opera il paese che aspira, che sogna in grande, che invita i propri cittadini a immaginarsi tutti Elon Musk; e che poi, nella realtà, sperequa, osserva le ingiustizie con distacco come se non riguardassero quel materiale umano che in teoria è così prezioso e discrimina per il colore della pelle, per la cultura e anche per le idee.
Where Was I è un monologo comico in cui Noah mostra di aver fatto una scelta precisa post Daily Show: è pur vero che ha rinunciato a una preziosa piattaforma satirica tramite la quale commentare la società statunitense, ma è una disciplina comica in cui è sempre riuscito talmente bene che è un peccato metterla da parte. D’altro canto, integrare un punto di vista per certi versi sociologico sulla cultura di un paese, anche in rapporto con il resto del mondo, in uno spettacolo di stand-up non è cosa da tutti. Qui, dopo una partenza in sordina, lo stand-up decolla quando il discorso vira sul rapporto degli Stati Uniti con la storia, sull’impressionante paura del cambiamento che esiste negli USA, sull’inno americano (riletto in chiave tracotante come fosse un pezzo gangsta rap) paragonato all’orgoglio maschile fragile e ferito, sull’attaccamento al lavoro e alla produzione fino a identificarsi con esso. È essenziale il fatto che Noah abbia un pubblico che conosce le sue istanze e il suo tono sardonico e mai paternalista, curioso di sottolineare le idiosincrasie che più lo lasciano perplesso, ma senza mai irridere puntando il dito alla Nelson.
Lo spettacolo si chiude con un bit che è la summa della comicità d’osservazione globale di Noah ed è assolutamente devastante, in senso positivo: la top 5 delle cose preferite dai bianchi – gli stessi bianchi che, bagnati dalla sempiterna luce del nume tutelare Cristoforo Colombo, da millenni dimostrano la propria grande capacità di “fallire verso l’alto”, ovvero di proclamare successi anche dopo aver clamorosamente toppato. L’elenco delle cinque cose preferite dai noi bianchi comprende i musei, dove ci soffermiamo con soddisfazione a notare tutti i danni e i saccheggi che abbiamo perpetrato in giro per il mondo per poi costruire posti dove esibire e celebrare le conseguenze di tutti i danni e i saccheggi che abbiamo perpetrato in giro per il mondo; il nuoto, con una lunga parentesi sulla spropositata quantità di medaglie olimpiche che i bianchi hanno deciso che si possono vincere in piscina per sopperire alle nostre mancanze in pista; l’esprimere sbalordimento e/o indignazione – ovvero l’arte di sbuffare per ogni piccola frustrazione della vita; la perfetta tautologia dell’essere bianchi, che effettivamente è un ottimo affare. E poi Sweet Caroline. Sipario e abbracci. Usciamo da questo spettacolo un po’ migliori rispetto a quando lo abbiamo iniziato.
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