Per comprendere cosa abbia portato dieci rapper sgarrupati di Staten Island a cambiare il volto dell’hip hop o un logorroico nerd cinefilo italoamericano a imbracciare la macchina da presa e divenire uno dei registi più idolatrati al mondo, occorre passare da qui. Dalla magnificenza dell’epopea Shaw Brothers, spesso più citata che effettivamente vista, più sfoggiata come una mostrina che studiata approfonditamente nella sua carica rivoluzionaria. Sono 760 tra oltre mille i titoli Shaw restaurati dalla meritoria Celestial Pictures nei primi anni Zero, con colori scintillanti e contorni nitidi.
Di quei 760 ne approdano 14 ora su MUBI. Possono sembrare pochi, ma sono ottimamente scelti: la crème de la crème - con qualche dolorosa esclusione - Shaw Brothers, un condensato dello studio cinematografico più importante della storia del cinema di Hong Kong (e cinese tout court). L’ambiziosa creazione dei fratelli Run Me e Run Run Shaw produsse senza soluzione di continuità pellicole di ogni genere tra la metà degli anni 60 e la metà degli 80, con dispendio di mezzi proporzionale alla sagacia adottata (spesso riutilizzando set, scenografie e cast per più di un film, con qualche minimo adattamento di sceneggiatura).
Con il marchio SB, lo scudo posto all’inizio dei titoli di coda e reso poi feticcio dal Wu-Tang Clan e da Quentin Tarantino, sono usciti film appartenenti ai generi più disparati, inclusi commedie e romance, ma è soprattutto per i wuxiapian e per i film di arti marziali in genere che la Shaw Brothers è periodicamente ricordata. Ma oltre che di generi e di fanatismo cinefilo la Shaw è anche faccenda di (grandi) registi: come King Hu (suo Le implacabili lame di Rondine d’oro), che abbatte la legge di gravità attraverso il montaggio cinematografico; o Chang Cheh (suoi Mantieni l’odio per la tua vendetta e Le furie umane del kung fu - ossia Five Deadly Venoms, il più amato e campionato da RZA), il Peckinpah d’Oriente, che sparge sangue nelle sue saghe di eroi machi cariche di tensioni omoerotiche; o ancora Lau Kar-leung, sifu e coreografo di arti marziali, convertitosi alla regia per regalarci il mitologico 36ª camera dello Shaolin.
I titoli succitati appartengono al mito, hanno ispirato generazioni di cineasti e mutato irreversibilmente il cinema d’azione. Storie di spadaccini monchi, costretti a divenire invincibili con la mano sinistra per potersi vendicare, o di monaci sottoposti a una successione di fatiche insostenibili per trovare una nuova consapevolezza di sé. Ma nel catalogo Shaw Brothers si trovano anche sorprendenti come Intimate Confessions of a Chinese Courtesan di Chor Yuen, che mescolano intrigo ed erotismo per regalare sorprendenti schegge di cinema audace e precursore, invecchiato benissimo. A distanza di decenni, il potere contagioso dell’estetica Shaw resta intatto, riuscendo a trasmettere anche allo spettatore ignaro un bagliore di quell’aura mitica e la netta sensazione che qui si sia fatta la storia.
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