Erano gli anni 80 in tutti gli Occidenti del mondo, anche gli orli estremi del Vecchio continente vivevano assorbiti nell’arricchimento. Gli occhi rivolti al Nuovo, dove, come cantavano i Village People, l’aria era serena e il cielo blu. Sebbene la crisi che avrebbe portato al crollo del Muro, e alla fine dell’Urss, non fosse ancora visibile, premonizioni - su tutte l’appuntamento orwelliano per eccellenza, il 1984, come data della dissoluzione dell’impero - e segni - tra i molti e più evidenti il quarto capitolo di Rocky (1985) - preannunciavano la vittoria dell’edonismo, non solo sul piano politico, ma anche etico ed estetico. Eppure c’era chi non si riconosceva nella «democrazia del frivolo» e nel suo ordine mascherato da falsa uguaglianza (essere uguale agli altri nel consumare, nell’essere felice, nell’essere libero); tra questi Aki Kaurismäki che, un anno dopo l’uscita del sopracitato episodio della saga stalloniana, gira un film-nemesi di nove minuti che riequilibra le parti.
In Rocky VI (doppelgänger di Rocky IV) è il colosso siberiano a frantumare di botte l’eroe a stelle e strisce e conquistarsi il titolo di campione (come riportava il catalogo dell’edizione 1993 del Torino Film Festival, allora ancora Festival internazionale cinema giovani: «Pensate forse che un uomo nato nella toilette di un McDonald’s abbia qualche chance contro centinaia e migliaia di anni di storia e cultura?»). Ai corpi adonici e palpitanti imbottiti di steroidi e di patetismo strabiliante, Kaurismäki risponde spappolando le misure fino a renderle, anche grazie a un bianco e nero espressionista, grottesche e freak; già convinto dell’inutilità della parola, il regista lascia il commento alla musica dei Leningrad Cowboys: «Vuoi soldi, vuoi sesso! Vuoi violenza. Dopo cos’altro vorrai? Mondo libero! Uniamoci tutti!».
Il corto segna l’inizio del rapporto tra Kaurismäki e l’autoproclamatasi «peggiore rock band del mondo», misto alcolico di rockabilly e canti popolari del Volga; un rapporto che permetterà al primo di firmare altre crudeli satire contro il capitalismo (Thru the Wire), affinare il suo umorismo lunare (Those Were the Days), rileggere in chiave balzana la storia recente della Finlandia (These Boots), mentre ai secondi di infoltire il proprio repertorio di cover. Oltre a questi e al videoclip girato live per i Melrose (Rich Little Bitch), MUBI offre altri due corti, The Foundry, episodio del film collettivo Chacun son cinéma, e Tavern Man, microfilm che fa parte del progetto in quatto parti Centro histórico realizzato per le celebrazioni di Guimarães 2012 Capitale europea della cultura (le alre sono firmate da Pedro Costa, Manoel de Oliveira e Victor Erice); due condensati della poetica kaurismäkiana: una poetica austera, fatta di forme essenziali, semplici, povere (nel loro essere elementari e decisive, tanto quanto le verità che esprimono) e però sommamente melodiche.
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