Se si esclude la sequenza che precede i titoli di testa, Hollywood Party si svolge quasi completamente all’interno della scenografica villa del produttore Clutterbuck e della moglie. L’esterno dell’abitazione, ripreso fugacemente quando Bakshi/Sellers vi arriva con la sua auto, corrisponde a quello di una casa reale, ubicata al 9271 di Robin Drive, quartiere di Hollywood Hills, Los Angeles, e possiede l’essenzialità geometrica di una facciata a firma David Chipperfield, con un intreccio rigoroso e quasi inesorabile di elementi architettonici orizzontali e verticali.

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Hollywood Party

I locali della magione sono stati invece realizzati nei Samuel Goldwyn Studios di West Hollywood – da Fernando Carrere (production designer) e da Reg Allen e Jack Stevens (set decorator) – riproducendo i connotati salienti di una possibile casa modernista: grandi pareti vetrate che lasciano sfumare i confini tra indoor e outdoor (come si vede da alcuni totali ripresi dalla piscina esterna e inseriti da Edwards per meglio contestualizzare ‘spazialmente’ il disastro messo in atto dal suo protagonista), e grandi blocchi di pietre che, plausibilmente derivanti dalle colline del circondario, irrompono sulle pareti a ‘macchiare’ il beige chiaro che imperversa ovunque.

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Hollywood Party
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La schematica scansione della facciata viene ripresa ed enfatizzata all’interno della costruzione. Si pensi all’inquadratura che registra il momento in cui Bakshi mette piede nella villa accolto dalla colf, subito preso ‘visivamente’ in mezzo da un incrocio di parallele e perpendicolari che sembrano volerlo ingabbiare: muri, pilastri, la cornice della porta alle sue spalle, la passerella che permette di attraversare la piscina interna, la parete divisoria alla sua destra definita dall’ininterrotta intersezione di rette dalle cui fessure fanno capolino le foglie di alcune piante.

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A interrompere questa monotonia geometrica provvedono il movimento elicoidale della scala che collega i diversi livelli, ma anche l’enorme divano circolare sormontato dal braciere/camino (ancora circolare e su cui incombe la gigantesca canna fumaria), e la voliera cilindrica che ospita i pappagalli.

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Alle pareti, quadri e sculture declinano varie tendenze dell’astrattismo, mentre gli arredi rispecchiano la passione per il design nordico imperante in quegli anni, tanto che è possibile riconoscere la presenza delle poltrone da ufficio Swan (che Arne Jacobsen disegnò nel 1958 per la hall dell’hotel Royal a Copenhagen, prevedendo solo linee curve che andassero a definire una forma blandamente organica) e, in esterno, una serie di sedute sospese in vimini, imitazione delle celebri Hanging Egg create da Nanna e Jørgen Ditzel.

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A sovvertire questo equilibrio progettuale (studiato nei dettagli ma che si rivelerà fragilissimo) provvederà, com’è noto, l’ineffabile Hrundi V. Bakshi che Edwards e Sellers creano a partire dalla comune ammirazione per il genio di Tati: non è un caso che l’ex comparsa invitata per errore arrivi alla festa su una Morgan 3 Wheeler (in omaggio a un’altra celebre ‘tre ruote’, la Salmson AL3 guidata da Tati nelle Vacanze di Monsieur Hulot), come è evidente che Hollywood Party sia (anche) una specie di smodata estensione della sequenza di Playtime ambientata al ristorante Royal Garden; e che, ancora e soprattutto, il rapporto disastroso tra il personaggio di Sellers e la tecnologia sia mutuato da quello che in Mon Oncle instaurava Hulot con la domotica. Con una differenza sostanziale: laddove in Mon Oncle il protagonista era sommamente disinteressato alle diavolerie di cui era piena la casa della sorella e del cognato, e non vedeva l’ora di tornarsene alla quiete atemporale del suo quartiere, il Bakshi sellersiano prova invece a dominarla, la tecnologia, servendosi a più riprese, e sempre sconsideratamente, del quadro comandi della casa, generando disastri su disastri.

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Bakshi quasi pretende di essere accettato dalla cultura e dall’ambiente di cui, per quanto casualmente, è stato chiamato a far parte (per esempio accostandosi sin da subito a un gruppo di invitati e ridendo di una barzelletta di cui ha perso l’inizio); e si impegna con commovente dedizione a fare parte del suo tempo, a risultare contemporaneo. Ma sono tentativi che cadranno miseramente nel vuoto e che faranno dell’uomo una variabile impazzita, un’entità suo malgrado dionisiaca destinata a infrangere l’idea di armonia, bellezza e perfezione auspicata da architetti e interior decorator.

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Aiutato, in questa ‘missione’, dall’opera altrettanto distruttiva del cameriere alcolizzato Levinson, il cui incedere costantemente caracollante calerà la pietra tombale su qualsiasi ipotesi di ‘ortoganalità’ propugnata dai padroni di casa. Clamorosi esempi di rottura della norma, proprio quello che ha rappresentato (e rappresenta tuttora) il capolavoro di Edwards, non a caso considerato dai suoi biografi, Peter Lehman e William Luhr, tra i film più sperimentali nella storia di Hollywood, in grado di spezzare (appunto) una tradizione filmica assimilata e consolidata dai tempi di Griffith.

Autore

Andrea Pirruccio

Si laurea in Storia e Critica del Cinema a Torino. Da oltre 20 anni fa parte della redazione della rivista Interni e dal 2022 collabora al dizionario Il Mereghetti. Da quanto ricorda, frequenta le sale da sempre, ma fa risalire il proprio imprinting cinematografico a un pomeriggio domenicale di tanti anni fa, quando i suoi genitori pensarono bene di portarlo a vedere 1997: Fuga da New York e, quando si accorsero che il film era stato sostituito da Pierino medico della SAUB, decisero di entrare lo stesso.

Il film

locandina Hollywood Party

Hollywood Party

Commedia - USA 1968 - durata 99’

Titolo originale: The Party

Regia: Blake Edwards

Con Peter Sellers, Claudine Longet, Steve Franken, Jean Carson, Natalia Borisova, Marge Champion

in streaming: su Apple TV Google Play Movies Amazon Video