La metà della gente non ne avrà mai abbastanza. Continuerà a voler sbirciare – dal buco della serratura televisivo e dal taglio fra le due assi di legno dello streaming – tutto il male che l’altra metà della gente è in grado di esercitare per i motivi più disparati. È affascinante, è ripugnante, è il miglior raziocinio possibile che osserva i peggiori istinti possibili. Ed è anche una valida spiegazione al motivo per cui certi generi non moriranno mai. L’horror non morirà mai. E il feticcio per il racconto true crime più o meno romanzato sarà il lascito antropologico più onesto per cui le nostre ultime generazioni verranno ricordate in futuro. Tutte cose che il sapido George Kay – esperto e prolifico showrunner di serie come l’antologia pan-europea Criminal, Litvinenko, Hijack e Lupin - ha ben presente, quando sceglie di mettere in scena (spesato dall’emittente generalista privata ITV) la vicenda del serial killer che, fra anni 70 e anni 80, più ha titillato l’opinione pubblica inglese moderna. Su Peter Sutcliffe c’erano talmente tante speranze, per quanto riguarda l’impatto sull’immaginario collettivo causato dalle sue nefandezze, che la stampa di peggior tipo ha deciso di affibbiargli il soprannome di Squartatore dello Yorkshire, evidente omaggio al più celebre e anonimo collega vittoriano Jack.
Kay, però, sceglie anche di fare un’altra cosa, che solitamente riesce a ben pochi. Sceglie di approfittarne per dare un senso all’operazione. È pur vero che cavalca con bieco calcolo la pancia del pubblico, raccontando una storia che attrae morbosamente diverse generazioni della gente che la sera si mette sul divano e, per rilassarsi, vuole sapere vita, morte e miracoli dei peggiori fatti di cronaca di sempre. Ma è altrettanto vero che Kay se ne approfitta per contrabbandare un poliziesco true crime un po’ tanto diverso dal solito, concentrato molto di più sulle storie delle vittime – tutte donne in difficoltà e costrette a prostituirsi – che sull’elenco dei disagi che il serial killer ha dovuto subire durante una vita che certamente sarà stata di merda e sicuramente non per colpa sua, ma comunque non ammazzi 13 donne e tenti di ucciderne altre 7. Cazzarola.
Solo se sei un malato di true crime – ops – metterai insieme i pezzi di un dettaglio lasciato sullo sfondo e capirai che, durante l’episodio pilota, il killer viene inquadrato giusto il tempo di un breve dialogo. Il grosso della puntata è dedicato in gran parte al racconto di due delle vittime, uno postumo e l’altro in fieri. La prima donna, Wilma, madre single di tre figlie e un figlio, a volte è costretta a uscire la notte per prostituirsi e raccattare i soldi appena necessari a mandare avanti la baracca in un periodo storico, la fine degli anni 70, caratterizzato da un’economia, chiamiamola così, frizzantina. Alla Margaret Thatcher.
La seconda, Emily, sta vivendo in tempo reale lo sgretolarsi della perfetta vita piccolo-borghese che lei e il marito, casalinga e artigiano, erano riusciti a costruirsi prima della crisi economica e delle picconate di Thatcher. Decisa a non rinunciare a quello stile di vita – non sopporterebbe la vergogna di fare un passo sociale indietro dopo essere riuscita a salire – la donna decide di prostituirsi con la nolente complicità del marito.
La decisione di Emily si consuma nello stesso momento in cui la polizia di Leeds rinviene il cadavere di Wilma. Il testardo, retto e stacanovista detective sovrintendente Dennis Hoban elegge la risoluzione del caso di Wilma a sua personale Moby Dick, manipolando a fin di bene la narrazione consigliata ai media e insistendo per avere una task force dedicata alle indagini e alla prevenzione di ulteriori omicidi.
Gli sforzi del sovrintendente, interpretato con sopracciglia magistralmente espressive dal dolente Toby Jones, sembrano solamente una cornice di genere – lo sbirro cocciuto che va controcorrente per inseguire la giustizia, le telefonate notturne che fanno sbuffare la moglie santa donna sopportante ma a tutto c’è un limite, il pannello in ufficio con il riepilogo del caso osservato intensamente a orari improbabili – per tenere all’erta noi malati di storie sanguinolente compiute da persone quasi sicuramente peggio di noi che almeno sappiamo controllarci, bravi noi. Poi però, con gentilezza e senza imposizioni plateali o didascaliche, Kay contrabbanda le storie delle vittime e sovverte una narrazione solitamente impostata sul racconto del carnefice. È un dettaglio in apparenza minuscolo, ma fa la differenza.
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