Era il 1999 quando la carneade belga Belle Perez inondava le frequenze di MTV con una nenia colma di ottimismo mal riposto. “Hello world, this is me. Life should be, fun for everyone”. “Ciao mondo, sono io. La vita dovrebbe essere divertente per tutti”. Ciao Belle Perez, sono io. Purtroppo non è così. Nel ‘99 Nate Bargatze – comico puro che non si è mai avventurato al di là di quello che gli riesce meglio: la stand-up – aveva vent’anni e quasi sicuramente è stato investito dalle banalità di Perez, anche solo per osmosi mentre la canzone andava in filodiffusione in un centro commerciale del Tennessee mentre lui tentava di sedurre una coetanea con un frullato e una partita al bowling. Tanto che 24 anni dopo ha intitolo il suo quarto speciale comico (recentemente pubblicato anche in Italia su PrimeVideo) come quella canzone lì, così pulita e così pura e con i codini in testa così perfetti che si fa fatica a credere all’esistenza di persone che credono davvero a quelle cose qui dette in quel modo lì.
Eppure ci sono veramente e peraltro sono anche piuttosto interessanti e divertenti, ma solo se prendiamo con le pinze quel concetto di purezza degno del migliore dei labrador e lo contestualizziamo in un mondo reale in cui gli unicorni non esistono e il glitter è stato finalmente bandito dall’Unione Europea. Bargatze, per esempio, è uno dei comici più puliti ed educati che vi capiterà di vedere su un palco. Non usa parolacce, né in scena né, presumibilmente, nella vita (“Da piccolo mi hanno vietato di dire che una cosa ‘fa schifo’ e ancora adesso, a 44 anni, non riesco a dirlo senza rabbrividire”). Non è in grado di insultare, neanche lontanamente, né di dare addosso a qualcuno o qualcosa. Lui stesso attribuisce queste caratteristiche all’essere stato cresciuto, tra gli anni 80 e l’inizio degli anni 90, da due genitori giovani e relativamente impreparati, che in quegli anni si convertivano al cattolicesimo e davano brevemente sfogo alla loro spiritualità e al loro dogmatismo repressi educando il loro primo figlio al terrore della punizione divina. In un’epoca, la nostra, in cui la spinta del progressismo ultra woke richiama la resurrezione del polo opposto magnetico del bigottismo, un bravo comico pulito ed educato si ritrova improvvisamente con un pubblico centuplicato. Ed ecco che Bargatze, serio professionista che negli ultimi vent’anni ha sempre lavorato con profitto pur senza riempire gli stadi, alla tenera età di 44 anni ha avuto un improvviso scatto di carriera, culminato con l’invito a presentare la recente puntata di Halloween di Saturday Night Live – faccenda piuttosto grossa, nel mondo dello spettacolo televisivo che sta dall’altra parte dell’oceano.
Fortuna che Bargatze non è solamente “il monologhista pulito che non dice le parolacce”. Sarebbe un po’ limitante, per lui e per il suo pubblico. A dirla tutta, Bargatze è un comico eccellente nell’arte della self-deprecation. Che in italiano i dizionari tradurrebbero come autoironia, autocritica o un misto delle due, ma sempre in chiave umoristica e bonaria. In inglese, però, “to deprecate” vuol dire deprecare, disapprovare, biasimare. Da noi non esiste, come parola unica e in chiave ironica, l’auto-biasimo. Sulla Treccani non c’è. Al massimo la trovate sul forum di Alfemminile o su un sito di nome “il ruolo terapeutico” che non so cosa sia ma mi fa venire voglia di incassare il mio bonus psicologo e andarmelo a bere nella peggior bettola della più brutta zona industriale vicino alla più pericolosa stazione dei treni accanto al più losco bingo di sempre. Questo solo per dire che né autoironia né autocritica rendono bene l’idea del concetto. Definireste Woody Allen autoironico? Certo, ci mancherebbe. Non è il primo aggettivo a cui pensereste, ma ricordate che stiamo parlando di Woody Allen in quanto comico. Mascalzoni. Basterebbe l’aggettivo “autoironico” a incapsulare gran parte dello spirito della sua comicità? Non credo. Self-deprecating ha un abbraccio più ampio. Prevede un tono ricercato di sminuimento, un tocco di rammarico ben calibrato, cento cc di autocritica rassegnata, ironia auto inflitta e un certo biasimo nei confronti di se stessi per essere abbastanza scaltri da prendersi per il culo allo specchio, ma non abbastanza per rispondere umoristicamente a quel bullo che alle medie ti prendeva in giro per i denti troppo piccoli.
Per Nate Bargatze funziona, e anche molto bene. Sia dal punto di vista di un collegamento empatico con il pubblico, sia da quello puramente e tecnicamente comico. Funziona tutto il suo bit sul cervello umano che ha una parte scema e una intelligente, e lui è comandato da quella scema. Funziona quando racconta della moglie che è l’uomo di casa perché lui di cose pratiche non ne capisce niente e quando viene quello della caldaia, lui gli dice che non sa cosa sia una caldaia e allora quello della caldaia gli chiede “Posso parlare con suo marito?”, perché siamo pur sempre nel 2023, e lui risponde che lei, suo marito, è in giardino nel capanno degli attrezzi. E funziona quando racconta ancora una volta della moglie, che non è capace a fargli i regali di compleanno e che gli confessa sempre quello che gli avrebbe voluto prendere e poi invece non gli ha preso: “Ho quasi avuto un sacco di splendida roba nella vita”.
Bargatze è anche uno di quei comici di osservazione. E in quanto brav’uomo che non sa dire “che schifo”, l’argomento che riesce a osservare meglio è quello della sua famiglia. Racconta in maniera esilarante la sindrome del primogenito, ovvero la sensazione di essere un esperimento genetico, economico, antropologico e sociologico fatto da due genitori non ancora pronti per avere figli. Ma faranno meglio la seconda e la terza volta, anche grazie al tuo pionieristico aiuto nei panni della cavia. Infatti l’ultimogenita fa quello che vuole (“Ho una sorella più piccola di dieci anni, che a quanto pare è stata cresciuta dai suoi migliori amici. Io a 28 anni nascondevo ancora il vino mentre lei si faceva un tatuaggio, e stasera sono qui con il terrore che mio padre si presenti a sorpresa”) mentre il fratello di mezzo è sempre quello di cui tutti si scordano. L’altra cosa che Bargatze può osservare è il lento decadimento del corpo e della mente umana, ovvero come cambia il concetto di uscire a divertirsi a 20 anni (“Andiamo?” “Certo, qualsiasi cosa! Cosa facciamo? Usciamo? Diamo fuoco al mio appartamento?”) a 30 anni (“Dove andiamo? È distante? È tanto rumoroso? Io vengo con la mia macchina”) e uscire a 40 anni (“Sono arrabbiato e deluso dal fatto che tu mi abbia anche solo chiesto di uscire pensando che avrei potuto dirti di sì”). Per poi soffermarsi sul grande demone del metabolismo per le persone di mezza età. Che grossa piaga. L’anno prima mangiavi sei chili di schifezze fritte alle tre del mattino e alle sette eri in piedi pimpante come un trullo; l’anno dopo se bevi mezzo bicchiere più del dovuto di acqua frizzante con la fetta di limone il reflusso ti prende a schiaffi e passerai tutta la giornata successiva a strisciare con il malessere addosso. Ma almeno rimane la speranza di diventare celebri come non mai anche bel oltre i 40. Basta essere come Nate Bargatze, la persona giusta al posto giusto nel momento giusto.
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