The Vanishing Triangle è una miniserie prodotta e distribuita, tramite Sundance Now, dagli amici dell’omonimo festivàl del cinemà, ed è creata e sceneggiata dal sior Ivan Kavanagh (Gli ultimi fuorilegge). Prende il titolo dal termine (Vanishing Triangle) che la stampa irlandese ha appioppato a un periodo (dalla fine degli anni ‘80 a quella degli anni ‘90) in cui il paese, per le donne, era più o meno come il triangolo delle Bermuda per le imbarcazioni e gli aerei. Se eri donna, sintetizza il sensazionalismo dei giornali, ogni volta che attraversavi la zona uscivi e non sapevi se rientravi. La miniserie si ispira a fatti eventi realmente accaduti, ma inventa i personaggi e romanza assai l’intreccio. The Vanishing Triangle inizia con Dreams dei Cranberries (che accompagna una volata aerea sulla Dublino della seconda metà degli anni ‘90) ed è subito Faye Wong in Hong Kong Express. Tutto ciò che ti fa venire in mente Wong Kar-wai in generale, Hong Kong Express più nello specifico e Faye Wong che fa la fatina matta in casa di Tony Leung Chiu-Wai in particolare, è meritevole di encomio sulla fiducia.
Dopo averci mostrato una giovane che fa tardi fuori con gli amici, perde l’ultimo bus per tornare a casa ed è costretta a fare l’autostop, la seconda scena è una conversazione preoccupata che si svolge in una stazione di servizio, sotto una pioggia torrenziale e da un telefono a gettoni. Un telefono a gettoni! Questa serie sa titillare la nostalgia degli ex collezionisti di schede telefoniche e degli eroi che quando c’era la Striscia degli anni d’oro con il sior Ezio e il sior Enzino. C’è anche del dramma da redazione: mando in stampa questo articolo nell’edizione serale o non mando in stampa questo articolo nell’edizione serale, rispetto il volere della giornalista per non pregiudicare la fiducia delle fonti o cerco di arrivare prima di tutti gli altri giornali; di quei drammi da redazione che adesso non si può più dire “fermate le rotative!”, né mettere i manicotti per salvarsi la camicia dall’inchiostro perché ahimè, signora mia, non c’è più l’inchiostro. Neanche le camicie fra un attimo. E qui dove c’è internet, una volta era tutta rotativa.
Il tono del racconto è ontologicamente intenso; non solo per l’estrema serietà e attualità dell’argomento (la violenza sulle donne) ma anche per la carica delle scelte di messa in scena. Ed è un racconto reso con un linguaggio stentoreamente non sanificato: non mariti sempre gelosi che fanno sempre la pazzia, né ragazze aggredite perché vestite in maniera provocante e se la fai annusare al lupo sai cosa succede dunque è colpa tua. C’è la violenza, ci sono le vittime, e ci sono le storture di un sistema che non vuole ascoltare, a cui non interessa, che ha bisogno di essere smosso dalle fondamenta dopo secoli di condotta storta. A ragione di ciò – immagino possano aver pensato gli autori – dopo pochi minuti e senza quasi nessuna rincorsa, se non per l’incipit, è già il momento di un flashback sgranato e sovraesposto.
Riguarda una giornalista d’inchiesta, Lisa, specializzata in storie di violenza sulle donne e trattata con condiscendenza da un ambiente di lavoro molto conservatore – atteggiamento che in minima parte serve anche a proteggere l’etica spassionata del giornalista. D’altronde parliamo di un paese, di una società talmente legati ai dogmi e alle tradizioni cattoliche prese alla lettera, da rimuovere la proibizione al divorzio (scritta nella costituzione) solo nel 1995 con un referendum vinto grazie a una risicata maggioranza di novemila voti e spicci su più di 1 milione e 600 mila schede – e dopo un precedente tentativo nel 1986, respinto con perdite da un 63.5% di no. Ma le cose, a metà degli anni 90, stanno finalmente cambiando. E la serie lo sottolinea tenendo in sottofondo, ma ben udibile, un mezzobusto in tv che, vista la vittoria del sì al referendum del ‘95, si interroga sulla crisi della chiesa cattolica e sull’abbandono della religione da parte dei giovani.
Lisa, in visita al cimitero, ricorda la sé stessa bambina che osserva la madre. Anni dopo, un uomo uccide quest’ultima davanti alla figlia ottenne. Più anni dopo ancora, la figlia diventerà una reporter molto impegnata e tenace, che viene (suo malgrado ma molto volentieri) coinvolta nel caso della sparizione di una ventenne che a prima vista appare collegato all’omicidio della madre. A tre quarti dell’episodio pilota c’è un necessario richiamino: un’epistassi da saturazione di ingiustizie provoca un altro ricordo traumatico smarmellato. È una miniserie che sembra non avere la minima intenzione di andare per il sottile. Visto il gusto per l’impianto da cinema d’inchiesta nella versione hollywoodiana, il finale dell’episodio pilota si conclude giustamente con un cliffhanger. Chi è quel misterioso anziano attaccato all’ossigeno che fissa trafelato (ancora più del solito) l’articolo di Lisa pubblicato contro l’opinione dell’autrice? Non lo so mica. Ma so che esattamente quello in cui speravano gli autori: farti venire voglia di curiosare e superare il crinale se non del fideismo, quantomeno dell’interesse.
È il The Post o lo Spotlight scritto quasi per Fincher ma diretto da uno sensibilmente meno bravissimo, eppure funzionale allo scopo? Direi di sì. E se mai dovessi avere il privilegio improbabile di poterne parlare con Ivan Kavanagh e Imogen Murphy, la regista di The Vanishing Triangle, direi loro che è inteso come complimento. Non si sa mai con i professionisti del mondo dello spettacolo, teneri e suscettibili cuccioli di artista.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta