«Con Beckham i calciatori diventano rockstar». Sono le parole di Peter Hook, tra i fondatori dei Joy Division, e la miniserie Netflix in quattro episodi non sembra, infatti, il biopic di un calciatore. Certo, ci sono tutte le fasi più importanti della carriera di David Beckham, dagli inizi quand’era allenato dal padre ai primi successi, fino alla consacrazione, giovanissimo, con il Manchester United; ma l’insieme somiglia, piuttosto, al ritratto di un musicista o un pittore. Pieno di talento, ma anche maledetto.
Quasi tutto il secondo episodio descrive uno dei punti più bassi della carriera del calciatore, quando è stato espulso, per un fallo di reazione su Simeone, nella sfida tra Argentina e Inghilterra ai Mondiali in Francia del 1998. Da quel momento nel suo paese è diventato il nemico pubblico numero uno, la stampa e i tifosi gli hanno fatto la guerra, al punto di arrivare a impiccare un suo manichino.
La forza di Beckham è nel mostrare il protagonista continuamente sulle montagne russe, accompagnato dalle ricorrenti testimonianze complici di sir Alex Ferguson (lo storico manager dello United), il compagno di squadra Gary Neville e la moglie Victoria, diventata famosa a sua volta negli anni 90 come membro delle Spice Girls.
Non sceglie la strada più scontata il regista Fisher Stevens (noto anche per il ruolo di Hugo Baker in Succession), mette a fuoco con efficacia ma “ricorda anche con rabbia” l’inferno della celebrità, con un ritmo incalzante allentato solo da un inevitabile cedimento “familiare” nel finale. Dietro lo sguardo di Beckham in primo piano c’è la sua storia. Nei suoi occhi (ci) scorre quasi davanti tutta la sua vita.
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