Regia di Nicholas Ray vedi scheda film
“Mi piacerebbe dare il mio contributo alla creazione di un nuovo concetto di cinema come organismo vivente, che respira, in modo da vedere sempre attive le molecole dell'emozione, del pensiero, dell'esperienza, in una specie di meraviglioso disordine che consenta al pubblico di partecipare alla creazione del proprio ordine e di trarre le proprie conclusioni. Penso che sia lì che alla fine arriveremo”.
[Nicholas Ray - Sono stato interrotto - a cura di Susan Ray - Bompiani, 1993-2011]
“...film indefinibilmente sublime e inevitabilmente (non) ultimo in cui Nicholas Ray cerca di definire il cinema facendolo nell'atto di disfarlo, nel solo modo in cui - rischiando di perdere tutto, o sapendo di averlo già perso - un film potrà conservare la tensione fulleriana e lo squilibrio del set, campo 'mimato' che mina proprio l'automatismo della mimesi in cui il cinema sembra banalmente consistere”.
[Enrico Ghezzi - Immagini al vento, estratto da Nicholas Ray - Sono stato interrotto - a cura di Susan Ray - Bompiani, 1993-2011]
“Sei come gli altri professori, parli sempre e non ascolti mai. Sai tutto perchè hai fatto dei film e sei vecchio, eh?”.
“Non saprei come risponderti. Non faccio lezione, non saprei come farla. Puoi tenere il ciak per noi? Più in alto, ancora di più. Giralo dall'altra parte”.
“Scena Studente, prima”.
“Che cosa stai facendo? Non capisco...”.
“Qui lavorano tutti”.
[Tom Farrell e Nicholas Ray]
Film-testamento, capolavoro di sperimentazione, monumento all'incompiutezza, delirio autobiografico, elegia del caos: We Can't Go Home Again è l'ultimo film di Nicholas Ray, ispirato, nel titolo, dal romanzo postumo (You Can't Go Home Again, 1940), di Thomas Wolfe e mai definitivamente completato: una prima versione, comunque provvisoria, venne proiettata nel 1973 al Festival di Cannes: l'anno seguente, però, il budget a disposizione per completare il montaggio si esaurì e Ray dovette attendere il 1976 per riuscire a rimettere mano al film, quando ne approntò un secondo editing, più breve, a cui aggiunse la sua voce narrante. Continuerà a lavorarci senza soste fino alla sua morte nel 1979, ma sarà soltanto nel 2011, proprio in occasione del centenario della sua nascita, che verrà finalmente proposta al Festival di Venezia la versione restaurata del film.
Durante il prologo del film, chiuso sulle note vibranti di Bless the Family (cantata dalla voce fatata di Suzy Williams, accompagnata al pianoforte da Stormin’ Norman Zamcheck, autore del brano, con cui condivise due splendidi album tra il 1975 e il 1978) scorrono immagini di manifestazioni popolari di protesta e di scontri sanguinosi con le forze dell'ordine. È la Chicago della Convention del Partito Democratico del 1968, della contestazione dei movimenti di sinistra contro la guerra in Vietnam (dalla frangia radicale della New Left agli Yippies dello Youth International Party, dalle Black e White Panthers fino alle organizzazioni studentesche, capeggiate dalla S.D.S.), degli incidenti del 28 agosto, con i soprusi delle forze dell'ordine sui manifestanti, che portarono al processo contro i Sette di Chicago (Abbie Hoffman, Jerry Rubin, David Dellinger, Tom Hayden, Rennie Davis, John Froines e Lee Weiner), accusati di cospirazione e incitamento alla rivolta e difesi in tribunale dall'avvocato William Kunstler, celebre attivista dei diritti civili. La città, ancora, dove nel dicembre del 1969 venne barbaramente assassinato nella propria abitazione Fred Hampton, esponente delle Black Panthers vittima di un raid congiunto di polizia e FBI. Ray vi arriva alla fine del 1969, quando, con la collaborazione di William Kunstler, ha intenzione di realizzare un documentario sul processo ai Sette “cospiratori” appena iniziato: durante la lavorazione conosce la sua futura moglie Susan Schwartz, studentessa universitaria che raccoglieva materiale sull'evento. “Alla fine della giornata”, racconta Susan (da Nicholas Ray - Sono stato interrotto - edizione citata), “quando i suoi collaboratori, la maggior parte dei quali non avevano la metà dei suoi anni, si reggevano in piedi a malapena, Nick era ancora pieno di energia e sembrava in grado di fare qualsiasi cosa altrettanto bene, se non meglio, di quelli che aveva assoldato […]. Non stava mai fermo: c'era il set da costruire, la sceneggiatura da scrivere, un provino da girare, gli avvocati con cui negoziare, i trucchi del governo da discutere, il proiettore rotto da riparare, il menu della cena da decidere, i giornalieri da visionare, l'assistente maltrattato da consolare, il nuovo spettacolo teatrale da vedere. E poi di nuovo la sceneggiatura: tutto nella stessa giornata, senza mai un calo di attenzione”. Il progetto, però, si arena quasi subito: i finanziatori, infatti, mutato il clima politico, abbandonano Ray a se stesso, tanto da costringerlo a tornarsene a New York (non prima di aver girato migliaia di metri di pellicola e centinaia di ore di riprese video, che gli costarono tutti i risparmi accumulati negli ultimi anni di carriera). All'inizio del 1971, finalmente, l'occasione per fuggire nuovamente dall'alcool e dalle anfetamine che avevano ripreso a devastarlo: invitato dall'Harpur College of Arts and Sciences di Binghamton, facoltà universitaria dello Stato di New York, riceve un incarico biennale per insegnare cinema nel neonato dipartimento dello spettacolo di Harpur. I suoi studenti, ruotando sul set di mansione in mansione ogni due settimane, avrebbero imparato a girare un film realizzandone uno: We Can't Go Home Again.
Scrive Nicholas Ray nella sua autobiografia (Sono stato interrotto - edizione citata): “Un regista, da tempo insoddisfatto di come andavano le cose nel tempio dei mercanti di sogni, si era ritirato dalle scene per cercare rifugio tra le dune di un'isola del Mare del Nord. Ma la sua fuga era stata interrotta da due giovani e simpatici truffatori, che lo avevano riportato sulla scena del conflitto, tra le strade e la Corte federale di Chicago”.
La voce (off) di Nicholas Ray commenta, dunque, nel prologo del film, le immagini di Chicago: "Avevo letto di un festival della Vita a Chicago nell'Illinois: ricordai che alla fine del XIX secolo un governatore dell'Illinois aveva rifutato che un grande partito politico vi tenesse la convention con il motivo che tale manifestazione avrebbe provocato agitazioni e violenza. Tre ore dopo il mio arrivo in città ero stato pestato e la mia cinepresa era stata spaccata. Ecco il tribunale federale: vi erano processati uomini come Jerry Rubin, Rennie Davis, John Froines, David Dellinger (un quacchero), Abbie Hoffman, Bill Kunstler. Fred Hampton fu assassinato in uno dei più vergognosi agguati mai commessi negli Stati Uniti. Lo scontro era stato troppo duro. A poco a poco la gente sparì e mi domandai: 'Dove sono finiti?'. Per fortuna mi venne offerto un lavoro in un'università dello Stato di New York: decisi di comprarmi un bastone, di esibire un pizzetto e un sorriso obliquo e di impressionarli con la mia retorica, la mia ribellione e la mia presunzione. L'educazione è un grande business".
Poi Ray si presenta ai suoi giovani collaboratori:
“Sei il nuovo insegnante di cinema?”.
“Credo di sì”.
“Non ne sei sicuro?”.
“Sicuro di cosa?”.
“Non sei troppo vecchio?”.
“Sei tu il regista del film di eschimesi con Anthony Quinn?”.
“E anche di Gioventù bruciata?”.
“Ti è piaciuto?”.
“Non era male”.
“Sei tu che hai fatto La donna del bandito, no?”.
“Ne sai un bel po' sul cinema, vero?”.
“Johnny Guitar?”.
“Sì”.
“Che cavolo ci fai qui?”.
“Devi essere ricco. Che cosa vieni a fare qui?”.
“Non ci importa niente di Hollywood”.
Ancora la voce off di Ray: "Il primo compito che avevo assegnato agli studenti era di filmare una manifestazione per i detenuti di Attica. Arrivando alla manifestazione, non potei non ricordare Chicago: questa assomigliava a un picnic. Dissi loro di trovare una storia tra due giovani".
Mentre in colonna sonora i deliri elettronici composti da Stanley Levine si alternano alle languide melodie per chitarra eseguite da Tim Ray (uno dei figli di Nicholas, nato dal matrimonio con Gloria Grahame) o ai meravigliosi brani di Stormin' Norman Zamcheck e Suzy Williams, i personaggi di Tom (Tom Farrell) e Leslie (Leslie Levinson) diventano, così, il cuore pulsante della finzione messa in scena: a loro si affiancano gli altri attori-autori del film, da Richie (Richie Bock) a Jane (Jane Heymann), da Stanley (Stanley Liu) e Phil (Phil Weisman) a Jill (Jill Gannon) e via via tutti gli altri. Oltre a Nicholas Ray, naturalmente, che li guida, osserva e stimola mentre si trasformano in personaggi. Le maschere che indossano raccontano la disperazione, il gelo, l’insensibilità, la ribellione, il disagio della generazione a cui appartengono i giovani studenti, trasfigurando l’evidenza della finzione nella magia dell’atto creativo (“Non facciamo mai le prove”, spiega Leslie, “non in questo film. Non lavoriamo così”), impressionato su una pellicola che ne moltiplica e confonde i punti di vista, traducendo nel caos la purezza e l’ineluttabilità del cinema (ovvero, Cocteau dixit, “la morte al lavoro sugli attori”): “tutto il resto”, infine, “è vanità”.
Fissando, con un'innovativa tecnica (definita “mimage” da Ray), su una pellicola a 35 mm, immagini realizzate in Super 8, 16 mm, 35 mm e videosintetizzatore (il celebre Abe-Paik Synthetizer, creato nel 1970 dal pioniere della videoarte Nam June Paik in collaborazione con l'ingegnere giapponese Shuya Abe) e affiancandone fino a cinque contemporaneamente, Ray simula il disordine, le nevrosi e il malessere di due generazioni (la sua e quella dei suoi giovani collaboratori) in un vorticoso caleidoscopio visivo attraverso cui sancire la definitiva impossibilità del (suo) cinema di ritornare alle proprie modalità espressive. Scrive Marco Müller nell'introduzione al testo citato di Nicholas Ray: “Il carattere provocatorio del film non si riferisce tanto alle premesse di critica sociale, quanto a una critica interna alla propria struttura, che pone diverse nuove condizioni di articolazione testuale. Ray intendeva agire in profondità nella struttura interna del film con un dispositivo che spezza la linearità della narrazione, frammenta il senso e si gioca dell'attesa che vuole arrivare a un esito. La stessa dimensione spaziale dell'immagine, la sua fisionomia, vengono triturate e riassorbite in un vorticoso giustapporsi”.
Astrazione cubista (con tanto di diretta citazione di Picasso nei dettagli del Guernica, mostrati durante la sequenza del lancio di pomodori a Leslie), quindi, a scomporre e ricomporre un materiale narrativo dalle infinite suggestioni emotive: banalizzandone estremisticamente i contenuti, We Can’t Go Home Again esplora lucidamente amore, sesso (il racconto di Leslie sulla sua avventura con il tassista, il rapporto tra Jill e Richie), droga (“Ho preso dell'anfetamina cattiva, credo, e adesso ho solo voglia di morire”), contestazione e repressione (“Sono stato assoggettato a una cultura diversa, a istituzioni e leggi diverse, alla diversità. Il mio modo di vestire non è mio, ma ci sono costretto perchè sono qui. Essendo assoggettato a questo, essendo un ospite in casa forestiera, mi aspettavo di essere trattato bene, meglio di come l'oste tratta se stesso, no? Questa sottomissione e questa non violenza... Non si tratta più di scegliere tra violenza e non violenza, ma tra violenza e ultraviolenza”), istruzione e insegnamento, cibo (la cena a base di cavolfiore e gelato, l'esperienza di David nella clinica per dimagrire), arte, finzione e realtà, politica, tensioni sociali e rapporti generazionali (“Mio padre è ispettore di polizia a New York nella squadra omicidi, non lo chiamare porco: amo mio padre. Ma non andiamo d'accordo...”), che attraverso le manipolazioni operate sulle immagini si trasformano in un magma ribollente ed esaltante di intenzioni/intuizioni cristallizzate in una rappresentazione non solo metafilmica, dove il plot che potrebbe riassumerla (ma di cui non ha alcun senso azzardarne una rilettura canonica e lineare) è volutamente mimetizzato e scomposto nei frammenti di pellicola mostrati e ricostruiti nel delirio di split screen che si animano vorticosamente uno dopo l’altro in elettrizzanti sequenze senza inizio/fine. Sublime è l’insieme, quindi, ma come ignorare, allora, alcune incredibili istantanee/momenti/microsequenze del film? Come, ad esempio, la vibrante scena madre con Tom, attivista politico con un padre poliziotto che lo disapprova, che si taglia la barba con le forbici. La cita, ammettendo la propria impossibilità a ricrearne l'identica, folgorante intensità, Wim Wenders in una conversazione con Nicholas Ray durante la lavorazione di Nick's Movie - Lampi sull'acqua (estratta sempre da Nicholas Ray - Sono stato interrotto - edizione citata):
Wim Wenders: Quando si fa un film, preoccuparsi che funzionino le immagini e non gli attori è una scappatoia. Ed è quello che sto facendo. Ovviamente l'ideale è far sì che funzionino sia l'immagine sia le persone che contiene.
Nicholas Ray: Queste ultime lavorano insieme e lavorano contemporaneamente.
Wim Wenders: È quello che ho imparato guardando We Can't Go Home Again, perchè lì l'immagine non conta nulla o conta a un livello totalmente diverso, con lo split-screen e tutto il resto. È il contrario di quello che faccio io con l'inquadratura e la luce. E ci sono cose (per esempio Tom che si fa la barba) che, per come lavoro io, non riuscirò mai a catturare sullo schermo. I rapporti che sei riuscito a costruire con quelle immagini non potrò mai metterli su una pellicola. Almeno con il mio metodo.
Oppure, ancora, le straordinarie e incalzanti progressioni del racconto che deflagrano nel climax drammaturgico del finale, con le ultime parole di Ray agli studenti prima di impiccarsi (“Sono stato interrotto”), anticipate da una gag fulminante (sempre Ray, che non riesce a prepararsi il cappio: “Ho girato dieci western e non so neanche fare un nodo!”).
Al termine dei titoli di coda, il sigillo finale (ancora Nicholas Ray):
“Nessuno ce la fa da solo, neanche la follia”.
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