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I ragazzi stanno bene

Regia di Lisa Cholodenko vedi scheda film

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La recensione su I ragazzi stanno bene

di (spopola) 1726792
6 stelle

Non più di una discreta commedia certamente molto delicata e persino “opportuna”, ma anche molto convenzionale e leggera che ha una buona sceneggiatura a sorreggerla, questo è indubbio, ma che, spacciandosi per spregiudicata, soffre invece di un eccesso di correttezza (formale e politica) e di una certa malcelata furbizia che nuoce al risultato

I pregi più evidenti di questa pellicola tutto sommato edificante e persino “rassicurante” nonostante l’argomento scelto, vanno sicuramente ricercati in un parterre di interpreti convinto ed affiatato, azzeccato e giusto, decisamente superiore alla media nella resa, ma anche in una  messa in scena sobria e misurata, due elementi non sempre riscontrabili nel panorama del cinema indipendente americano e di quello a tematica gay (fatte le dovute eccezioni ovviamente), che  contribuiscono a renderla decisamente godibile e per molti aspetti anche sufficientemente originale, intelligente e divertente, con quel suo chiaro invito a una seria e ragionata riflessione scevra da pregiudizi.

Un film che però alla fine si conferma soprattutto una discreta commedia o poco più, certamente molto delicata e persino “opportuna”, ma anche molto convenzionale e “leggera” che ha un’eccellente sceneggiatura  a sorreggerla, questo è indubbio, ma che  spacciandosi per spregiudicata, soffre invece di un eccesso di correttezza  (formale e politica) e di una certa malcelata “furbizia”  che nuoce al risultato, che io avrei voluto invece più scavato in profondità e meno ovvio. Se si decide di trattare certe tematiche scottanti, come ha fatto appunto in questa circostanza Lisa Cholodenko, parlando per altro di cose che la riguardano molto da vicino, si dovrebbe poi avere il coraggio di osare di più, o per lo meno di evitare certi luoghi comuni e altrettante concessioni fritte e rifritte e un tantino scontate, perché a mio avviso il “politicamente corretto” ad ogni costo, quella voglia di essere “piacioni” indiscriminatamente e su tutto il fronte, pagherà sicuramente in termini di incasso e di gradimento, ma non aiuta a sviscerare fino in fondo la questione, e soprattutto non ce la mostra “esattamente” nella sua complessità, poiché finisce per fornirci una parziale visione buonista e un tantino edulcorata delle cose,  per l’inopportuno inserimento (prendetela come una valutazione personale) di alcuni elementi tutt’altro che secondari che contribuiscono a confondere le idee e a rendere il tutto meno urticante. In conseguenza di ciò, il consuntivo finale  per quanto problematicamente impegnato e divertente, può risultare quindi oltre che tranquillizzante, anche stucchevole e abbastanza deludente, se non addirittura un tantino “fuorviante” (credo però che già in partenza l’obiettivo non fosse quello di scuotere violentemente le coscienze, ma piuttosto quello più minimale di far risultare gradevole al palato, e soprattutto accettabilmente “digeribile” senza disturbare troppo il perbenismo borghese dello spettatore medio,  una “condizione” tutt’altro che conformizzata, come quella descritta in questa pellicola).

Film di scrittura, dunque (ha impiegato 5 anni la regista per organizzare insieme a Stuart Blumberg questa sceneggiatura in parte autobiografica, storia di due mamme che ricorrendo all’inseminazione artificiale, hanno saputo dar vita a una famiglia “alternativa” ma del tutto tradizionale nelle sue funzioni), e soprattutto di attori come ho già detto, anzi di attrici, visto che è proprio il lato femminile a far la parte del leone con due interpreti principali  (la Moore e la Bening) in stato di grazia, bravissime a descrivere la quotidianità domestica, i nervosismi e la divisione dei ruoli canonici dell’istituzione familiare perfettamente definiti (anche fin troppo, tanto risultano omologati  nella consueta ortodossia di un  cliché  del  “maschile” e “femminile”) nonostante la corrispondente identità di “genere” anagrafico delle due protagoniste.

E’ singolare infatti (magari anche opportuno, ma altrettanto abbastanza scontato), assistere alla messa in scena di un’unione omosessuale come questa che pare lo specchio perfetto (persino simmetrico nelle inclinazioni) di una equivalente  famiglia etero della middle class urbana illuminata (ma non troppo) e progressista dello stesso segmento piccolo-borghese della società: due “madri”, certo (l’identificazione biologica a senso unico è indiscutibile), ma con scelte molto precise (e differenziate) nelle attitudini e nei ruoli assunti, e quindi alla fine sostanzialmente una mamma (la Moore) e un padre (la Bening) come in ogni classico nucleo etero che si rispetti, che si confermano due lesbiche a tutto tondo (anche se da un lato a  un certo punto avremo qualche dubbia concessione trasgressiva che potrebbe far pensare il contrario per almeno una di esse) capaci  di educare i loro figli (e chi avrebbe potuto metterlo in dubbio, se non l’ipocrisia di una società rigidamente beghina negli schemi?) con perfetta aderenza e  persino competenza (e che di conseguenza  hanno cresciuto due creature consapevoli  e curiosamente intrigate dalla loro speciale situazione, preparate ad andare fuori casa appena compiuta la maggiore età e a percorrere la propria strada senza complessi di alcun tipo, assolutamente libere dal pregiudizio, per affrontare serenamente la propria vita e il proprio futuro con un invidiabile bagaglio culturale e un’inconsueta apertura mentale). Anche le apprensioni, le ipocrisie e le aspirazioni, sono le stesse di una coppia qualunque, con una rappresentazione del rapporto che evita consapevolmente ogni provocazione, l’inseguimento dell’eccesso come scelta programmatica, l’afflato scandalistico rivoluzionario, per dare vita invece a una pellicola onesta, anche se un pò a tesi e molto conciliante,  che sfiora però molti (troppi ) dei luoghi comuni (o delle convinzioni) sull’omosessualità e sul lesbismo in particolare (quell’essere all’occasione “da bosco e da riviera” per esempio che qualche volta porta inesorabilmente verso il maschio – o nel caso dei gay, verso la femmina - che non ribadisce quasi mai al cinema l’assoluta, univoca natura di un’attrazione solo “omosessuale” come invece accade nella maggior parte dei casi, checché se ne pensi e se ne dica) che qui si concretizza in una  scena centrale che vede la “lesbica” femminile (e chi se non “quella”?) della coppia, la rossa Jules,  diventare improvvisamente “eterosessuale” per una breve parentesi  (indispensabile forse per mostrarci  il più che interessante “lato B” di Mark Ruffalo, un personaggio a cui non pare vero di realizzare il  sogno erotico proibito di ogni maschio in calore, quello di “scoparsi una lesbica dichiarata e consapevole”, appunto, oggetto di un desiderio e di una rivincita  praticamente irraggiungibili per i più). E qui poi si calca  forse troppo la mano su particolari molto “accattivanti”, con lei che eccitata  per l’imminente amplesso, slaccia voluttuosamente i pantaloni dell’uomo ed esplode in un entusiasta e liberatorio Hello!, alla vista del “gioiello di famiglia”.  Scena senz’altro esilarante, ma quanto mai  pleonastica che sembra tendere sostanzialmente a offrire a tutti gli spettatori in sala la conciliante rassicurazione di  una “trasgressione” ribaltata (se così vogliamo definirla),  rappresentata da una scappatella etero che prova a rimettere parzialmente a posto le cose, della quale io avrei fatto molto volentieri a meno, visto che ci era già stata perfettamente raccontata e con tutt’altra garbata arguzia, la  diversità delle sessualità maschili e femminili che si può sinteticamente riassumere nel fatto che quella femminile  (anche in caso di lesbismo) al contrario dell’altra, è più interiorizzata, ma ogni tanto ha anche lei bisogno di stimoli che mostrino qualcosa di esteriorizzato e di più concretamente “pertinente” (la visione del pene o di qualche suo succedaneo, per l’appunto) vedi  la scena in cui Jules cerca di a spiegare al figlio Lares cosa ci facciano un vibratore e dei dvd porno gay nella camera da letto matrimoniale.

Il lato positivo della cosa (che pure c’è ed è in ogni caso di notevole valore) riguarda invece la  spontaneità e la naturalezza che trasmette la pellicola  riguardo a un modello familiare che qui in Italia è ancora un insormontabile tabù, ma che negli Stati Uniti - e a maggior ragione nella California “liberal” cornice della storia - non sorprende né scandalizza quasi più nessuno, perché la Cholodenko si conferma  bravissima e particolarmente accorta, proprio nel descrivere la normalità, la quotidianità di quella coppia, che Spaggy (spero che non me ne vorrà se non sono del tutto sulla sua lunghezza d’onda) con la sua profonda ed esaustiva opinione molto ragionata e pertinente, definisce una storia universale sulla famiglia e sulla capacità di superare le difficoltà con la forza stessa del legame tra i componenti e dove la normalità risiede anche nelle condizioni giudicate più “anormali”, a dispetto delle critiche che una società moralista è solita lanciare alle coppie di fatto omosessuali e alla possibilità di crescere dei figli, perché il copione mostra inequivocabilmente come i due ragazzi siano cresciuti qui con sani principi etici e con una loro identità sessuale ben definita e naturale. Del resto, come ha ben sottolineato Matteo Colombo, state pure tutti tranquilli (l’invito è chiaramente rivolto agli spettatori titubanti) perchè qui non si fa male nessuno e tutto alla fine  torna (anche un po’ malinconicamente) a posto, in un modello sociale di invidiabile equilibrio (che ha la giusta dose di prodotti rigorosamente biologici a far da contraltare) e di “perfezione” un po’ posticcia  che viene bilanciato dal gusto per la buona tavola, lo spirito di intraprendenza temperato da propositi di tardivo riscatto professionale, e dalle piccole crisi familiari  “extrauterine” come quella a cui ho accennato sopra.

La regista giura di provare empatia per tutti i personaggi, papà biologico compreso, ma forse non è proprio esatto e lei non ce la conta giusta perché si percepisce chiaramente che le sue preferenze sono tutte al femminile. Anche nei figli infatti il cui apporto narrativo nell’economia della storia è interessante e fondamentale (seppure un po’ di maniera) viene  molto meglio descritta la ragazza che non  il ragazzo. Il giovane Josh Hutcherson e l’altrettanto talentuosa  Mia Wasikowska, riescono in ogni caso a creare un  credibilissimo amalgama nel rapporto figli/genitori (padre spermatico compreso), con una complicità di fondo davvero molto intrigante, alla quale è davvero difficile resistere o rimanere indifferenti.

 

Una coppia di donne con due figli dunque, con da una parte Jules che ha lasciato il lavoro per fare la madre a tempo pieno (con inevitabile corredo di frustrazioni soprattutto quando la ragazzina sta per lasciare la famiglia per andare al college, e anche il maschio che cresce a vista d’occhio è in procinto di fare altrettanto nel giro di una manciata di anni) e dall’altra Nic che si è invece dedicata interamente alla carriera ed ha in mano il timone anche economico della situazione (lo dimostra con quel suo atteggiamento un po’ rigido e maschile confermato anche dalla foggia del taglio dei capelli). Una famiglia nella norma, mediamente serena, insomma, dove ci si ritrova quasi sempre  tutti insieme a cena, con abitudini, chiacchiere e scambi di opinione e dove il sesso è ormai un po’ ripetitivo, ma anche allegro, affettuoso, solare e saldo come si conviene, e dove l’agente (mi verrebbe voglia di dire il “seme”, visto il suo ruolo attivo di donatore) che porterà a un certo punto lo scompiglio, il “turbatore” di equilibri consolidati,  non è alla fine che un piacevolissimo  bamboccione che non ha nulla però della forza perturbante di un vero e proprio antagonista, e che segue alla fine, proprio grazie a questa vicenda (e alla posizione esclusivamente “funzionale” che il racconto gli riserva), una traiettoria parallela  che lo porta (poca cosa invero) a sua volta a maturare e a capire che alla sua età è ormai arrivato il momento di cambiare rotta.

La normalità dello spaccato sociale raccontato, rappresenta dunque il vero elemento di novità (se così vogliamo definirlo) di una pellicola in cui la regista ha scelto di evitare accuratamente (e consapevolmente) ogni pur minima provocazione fino dal titolo e dove (ripropongo ancora ciò che ha scritto Matteo Colombo), si può stare davvero tranquilli perché non si fa male nessuno. Questo però vale magari per l’America e per tutte le nazioni più aperte ed avanzate, perché quaggiù da noi invece non si può davvero stare tranquilli purtroppo (né tantomeno rilassati) nonostante le rassicurazioni fornite dalla pellicola con la sua  rappresentazione un po’ idilliaca delle cose, visto che ancora vedere (o anche semplicemente immaginare) coppie omosessuali con figli sembra quasi un’utopia lontana e irraggiungibile (per molti addirittura un’eresia). Forse allora sono io che sbaglio quando dico che avrei voluto pretendere maggior coraggio, il poter contare cioè su una radicalizzazione del concetto che a mio avviso sarebbe stata più logica e necessaria (anche se molto più scomoda e scivolosa), ed ha avuto invece ragione la Cholodenko che certamente ne sa molto più di me nello scegliere un percorso tutto sommato “dolce” e accomodante, visto che nella storia ha riportato – ovviamente un po’ artefatte e romanzate – parte delle sue personali vicissitudini di lesbica. Io ovviamente non ne sono del tutto convinto però e continuo a credo in tutta coscienza che si poteva fare di più e di meglio, per lo meno come incisività.

In conclusione dunque un film “correttamente” omologato che non risparmia però battute sarcastiche abbastanza dissacranti sull’essere omosessuali, che sfiorano a volte anche il paradosso  (avrei preferito tu fossi gay, saresti stato più sensibile, dice Jules al figlio Lares) e situazioni molto illuminanti sul classismo (la differenza dello status sociale e culturale esistente fra Nic e Paul, messo ben in evidenza nel loro primo incontro) e sui luoghi comuni legati agli stereotipi razziali verso gli immigrati.

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