«Nel mio distretto nel corso di un solo anno si sono verificati 8000 feticidi. 7999 avevano come vittima una bambina. La nascita di una bambina per una famiglia rappresenta una maledizione»: a pronunciare queste parole è Ritu, una giovane indiana che con l’aiuto del fratello ha messo in atto nel villaggio di Bibipur una politica di sensibilizzazione atta a riconoscere il ruolo della donna all’interno di un contesto arcaico in cui questa, per questioni di dote o di semplice sicurezza, viene percepita come un flagello da condannare. Essere una donna non ha lo stesso significato a tutte le latitudini di quel complicato pianeta che è la Terra: ragioni antropologiche, sociologiche, religiose e culturali, spesso relegano le figure femminili a un ruolo secondario rispetto a quello riservato alla controparte maschile. Lo sguardo di Barbara Cupisti in Womanity si concentra proprio sulle diversità di genere che interessano tre zone differenti del mondo, passando in rassegna principalmente le storie di quattro donne che, dall’India agli Stati Uniti, da satelliti dell’universo diventano sole. Utilizzare il temine sole ha però qui una doppia valenza: per amor di metafora, si fa riferimento a una stella centrale attorno a cui ruotano diversi pianeti; ritornando con i piedi per terra e spogliandosi di ogni merletto linguistico, si vuole invece sottolineare il profondo senso di solitudine e di sconfitta che ogni donna vive, interiorizza e fa suo.
In India, come Ritu, vivono anche Geeta e Neetu, una madre e una figlia la cui esistenza è stata mortificata dall’acido che ne ha deturpato il volto. Loro aguzzino non è stato uno sconosciuto: a sferrare una notte l’attacco è stato il violento marito di Geeta. Neetu aveva solo due anni e mezzo quando, sopravvivendo, è stata più fortunata della sorellina, più giovane di un anno, morta per le conseguenze delle ferite riportate. Rimanere senza il volto che Madre Natura aveva loro donato ha inevitabilmente cambiato le due donne, costrette a fare i conti dapprima con una femminilità cancellata e dopo con le difficoltà del quotidiano, prima fra tutte quella di trovare qualcuno disposto a dar loro un lavoro. Non ci si chiede spesso come sia la vita di una persona senza faccia: Cupisti invece non scavalca la questione e la affronta di petto, affidando alle due donne il compito di far da Caronte all’interno di un bar speciale, lo Sheroes Hangout di Agra. Qui, tra un caffè e la visita di un avventore attento, si riuniscono le vittime sfigurate dall’acido, condividono le loro esperienze, lavorano e cercano una parvenza di normalità. Unico luogo in cui trovano il coraggio di scoprirsi e di non sentirsi indicate come mostri, le donne parlano dei momenti che le hanno portate fin lì, ripercorrono le atrocità che hanno affrontato e si spogliano del senso di colpa che la società circostante, per tradizione o per ignoranza, ha loro cucito addosso. Geeta, andata sposa a 17 anni a un uomo che non aveva mai conosciuto e che si è rivelato manesco e ludopatico sin dalla prima notte di nozze, ha avuto secondo l’opinione comune la grande colpa di non aver garantito al consorte un erede maschio: per la famiglia di lui, aveva il diritto di ucciderla per poter sposare un’altra. Al bar si sottolinea come non coprirsi sia il primo passo verso l’accettazione di sé e all’urlare al mondo che si è ancora vive, nonostante tutto e nonostante tutti. «Il giorno in cui farai il primo passo tutti ti aiuteranno»: e il primo passo è indubbiamente scoprirsi.
Se Geeta e Neetu rivendicano la loro femminilità, Sisa in Egitto l’ha cancellata con un colpo di spugna. Sessantaquattro anni, lavora come lustrascarpe a Luxor e, da quando è rimasta vedova (e incinta di sei mesi) in giovane età, ha dovuto sacrificare se stessa e la propria identità reiventandosi uomo. Rifuggendo all’idea di un secondo matrimonio o di un’esistenza passata a mendicare, e non potendo fare appello a un’istruzione che per questione di povertà non aveva, Sisa ha dismesso i panni femminili (cancellando così ogni tentazione o impulso predatorio sessuale) per vestirsi letteralmente da maschio e cominciare a lavorare per strada occupandosi di mestieri generalmente riservati all’altra metà dell’universo. Scoperta, ha subito per qualche giorno l’onta del carcere ma in seguito è stata onorata dal Governatorato come “madre ideale”: da 43 anni provvede infatti lei al sostentamento della figlia, non molto fortunata anche in età adulta. «Vestirmi da uomo mi ha ridato la vita. L’ho fatto per crescere mia figlia e davanti a Dio non ho sbagliato in nulla», sostiene con forza Sisa, il cui nome significa piccolo dattero e rispecchia – quasi fosse stato premonitore - a pieno il suo fisico esile e minuto. A differenza delle donne indiane, Sisa ha trovato una via cinematograficamente valida per imporsi: come una Victoria dei bassifondi egiziani ha indossato il suo turbante e ha ritagliato per sé un posto lungo le acque del Nilo che altrimenti nessuno le avrebbe riservato. Ha scelto dunque di combattere il maschilismo imperante sfidandolo ad armi pari, ha cancellato lei la propria identità prima che lo facessero gli altri. Ha vinto, verrebbe da dire, se i suoi occhi e il rosario in mano non rivelassero altro. Bastano pochi dettagli nel cinema di Cupisti per indagare le psicologie: la telecamera, seppur non indugiando, sa cogliere particolari a cui donare nuovi significati. Spogliando oggetti, vestiti e discorsi, dalla carica semantica che automaticamente comportano, si può navigare dentro sottotesti che esulano dal mostrato. Il semplice rosario, ad esempio, ci restituisce l’immagine di un Paese in cui la religione non è una questione che si risolve all’interno delle mura di casa: come in India, siamo in un territorio in cui coabitano a forza religioni differenti e all’interno della stessa religione coesistono pensieri, correnti, opinioni e comportamenti contrastanti, forze centrifughe che scorrono parallele e mai si incontrano.
La quarta vicenda presentata da Cupisti per far il punto sulla forza delle donne viene dagli Stati Uniti, nazione modernissima secondo il pubblico sentire. Nel North Dakota lavora e si sforza di vivere Jonnie, una quarantenne che, dopo un’adolescenza non facile e una relazione non idilliaca (segnata da violenza, abuso di droghe e problemi con il peso), ha seguito l’utopia data dal petrolio e ha trovato occupazione come camionista. A Williston la vita per lei non è però facile: circondata quasi esclusivamente da uomini, Jonnie è come invisibile. Con un lavoro non tipicamente femminile e in un posto in cui non conosce nessuno, ha dovuto vincere la solitudine imparando a divenire il padre di se stessa, come ha modo di sottolineare: senza nessuno che si prendesse cura di lei, del suo stato d’animo o dei suoi malesseri, ha potuto contare esclusivamente sulle sue forze per andare avanti e cercare un proprio atollo di serenità. In mezzo a tante persone, Jonnie si lamenta della mancanza di supporto tra donne quando il destino le riserva l’incontro con una sopravvissuta al mercato (lucrativo) dello sfruttamento della prostituzione. Un tempo costretta a prostituirsi, la donna di notte va in giro per la cittadina a prestare soccorso a chi è ancora meno fortunata di lei e deve vendere il proprio corpo per esaudire le richieste dei suoi aguzzini.
Com’è facile notare, Cupisti in Womanity ha costruito un puzzle in cui ogni storia, oltre dalla linea verticale manifesta sin dall’inizio, è legata per vicinanza od opposizione. Dal villaggio delle donne di Ritu si passa alla città degli uomini di Jonnie, dalla solitudine secolare indiana si vola alla solitudine moderna americana, dalla maternità protettiva di Geeta si arriva a quella procacciatrice di Sisa, dalla femminilità negata di Neetu si giunge a quella soppressa di Ritu o a quella ritrovata di Jonnie. La regista non nega lo sconforto che caratterizza tutte le sue protagoniste ma lascia aperto un piccolo varco di speranza per ognuna di esse, ne osserva i silenzi e i riti quotidiani e ne carpisce la fiducia rimanendo sempre dietro alla telecamera. Ne rispetta i tempi, i volti e i gesti, non entra mai nell’immagine e rifugge l’idea di un cinema intervista a cui fin troppi reportage di natura televisiva ci hanno abituato. È innegabile che la dedica a inizio film a Chantal Akerman faccia riflettere: come Akerman, Cupisti non si lascia intimidire dal focus delle sue attenzioni, ne ha piena padronanza e ne affronta le questioni senza troppi fronzoli. Non si perde in immagini pulite o edulcorate, anzi: tende a sporcare le sequenze come chi ha voglia di sporcarsi le mani nel voler essere d’aiuto. Si apprezza molto il suo sguardo femminile che, occorre sancirlo, non è sinonimo di femminista: il femminismo nel cinema di Cupisti non è mai esistito. Sin da Madri, documentario che ne ha rivelato le doti, i suoi lavori hanno evitato di cedere ai luoghi comuni di un movimento oramai deceduto per abbracciare ideali universali visti da un’ottica umana, in grado di andare al di là dei generi.
«Ho incontrato donne incredibili nel mio percorso di vita, donne di cui non sempre ho potuto raccontare le storie, a partire da mia madre e mia nonna, donne lottatrici, eroine del quotidiano di cui si parla troppo poco o per niente. Nei campi profughi, alle pendici dell’Himalaya, nella foresta brasiliana, nei territori occupati, nell’occidente che ha perso la sua civiltà, nei campi rom e un po’ ovunque io sia stata in questi ultimi anni, le donne mi hanno sempre parlato di futuro, di speranze, di sogni, con sacrifici incredibili hanno ricostruito le loro vite e quelle delle loro famiglie, dei loro cari, della comunità di cui fanno parte. Potrei anche dire che questo è un film sulla solitudine, perché ciascuna donna, nella sua solitudine interiore e non, porta avanti la propria battaglia ogni giorno, in silenzio». (Barbara Cupisti)
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INTERVISTA A TAOMA MOON, AUTORE DELLE MUSICHE DI WOMANITY
All’inizio di Womanity una lunga sequenza di musica e rumori introduce la quotidianità di Geeta e Neetu. Le note, ad esempio, si fondono ai borbottii di un pentolino sul fuoco: è difficile distinguere cosa è rumore naturale e cosa è invece frutto della creatività del compositore. A comporre le musiche del film è Tommaso Gimignani, nome non nuovo tra nostre pagine. Ho avuto l’onore di conoscere Tommaso qualche anno fa per una rubrica redazionale dal titolo ‘Saranno famosi’ (//www.filmtv.it/post/32140/). Ai tempi, Tommaso – in pianta stabile oramai negli Stati Uniti e attivo con il nome di Taoma Moon (qui il suo profilo Facebook: https://www.facebook.com/taomamoon/) – suonava in una band e provava ad affermarsi professionalmente come musicista e cantante. A distanza di anni, lo ritrovo a far da compositore a uno dei lavori di Barbara Cupisti e ho colto l’occasione per capire come si era evoluto il suo percorso.
Ti ho lasciato in una band. Ti ritrovo a comporre musiche per un film. Mi racconti cosa è accaduto da allora?
Mi hai lasciato che ero un giovane ragazzo con un sacco di domande stupide, qualcuna giusta, ma comunque pochissime risposte.Nel frattempo sono diventato un uomo, con domande decisamente migliori e forse qualche risposta in più, forse.Ho iniziato a trovare la mia identità di artista, ho cominciato a costruirmi la mia famiglia con una splendida donna e due cani!
Vivo “quasi” in riva al mare, tutte le mattine apro la finestra e respiro l’oceano. Sono connesso al mondo che mi circonda, ai pianeti che si muovono e alla pioggia che cade sugli alberi. La musica che suono e compongo rispecchia la mia vera natura e non cerca di essere ciò che non è e soprattutto che non vuole essere. Suono la mia verità e non cerco più di vestire i panni della rockstar. In realtà, non “cerco di fare” nulla, Piuttosto “faccio” tutto quello che è in armonia con chi voglio essere, con chi sono sempre stato nel profondo ma non ho mai avuto il coraggio di essere pienamente. È una strada difficile quella per disintossicarsi dall’auto limitazione, dal dubbio e dalla paura di fallire. Me ne sto sempre piuù liberando e con me anche la mia espressione artistica, una scaglia alla volta.
Lavorare alla colonna sonora di un documentario rappresenta per molti versi una sfida. Sai in partenza che i tuoi suoni devono adattarsi alla vita vera. Dove hai trovato ispirazione per le musiche di Womanity? Cosa ti ha fatto capire come dare risalto al vero senza risultare artificiale?
Per me sta tutto nella storia. Spesso però le storie sono complicate, troppi dettagli da narrare, ma hanno tutte un’essenza. Èdall’essenza che mi lascio ispirare. Ogni persona racconta la sua storia in maniera diversa, alcuni accettano gli errori, altri li negano fino alla morte, altri ancora si giustificano o si sentono colpevoli. Ma cosa c’è al centro di una storia? Un’esperienza, a volte molto positiva, altre volte un trauma. Questo porta a un sentimento più o meno preciso. Che suono ha questo sentimento? Per me di solito è un suono semplice ma complesso allo stesso tempo, un suono umano e familiare mischiato con quello dello spazio interiore della persona che lo contiene, talvolta di chi lo ascolta. Non importa quale strumento stia suonando, le storie umane suonano sempre come un canto. Non sempre serve una voce umana per riconoscere un canto, a volte basta avere un cuore.
Quando si crea da questo luogo non esiste più giusto o sbagliato, reale o artificiale. Esistono tante verità quanti esseri viventi sul pianeta, ognuno con i suoi suoni. Questo principio si estende anche al modo in cui interpretiamo le verità altrui. Come un artista decida di esprimere la propria verità, così come quella di un’altra persona, non è una cosa che mi permetterei mai di giudicare giusta o sbagliata, reale o artificiale. Semplicemente, indiscutibilmente è.
La sequenza di apertura sembra scritta da un maestro con decennale esperienza alle spalle. Ci racconti com’è nata l’idea di fondere musica e suoni creando un corpus unico?
Questo perchè quasi tutti abbiamo un’esperienza anche più che decennale con i suoni della nostra vita quotidiana. Come dicevo prima, basta concentrarsi sull’essenza, che sentimento si trova al centro? In che maniera si muove e come lo esprimono i personaggi nell’immagine? Che colori ci sono nella stanza? Che suoni fanno le azioni compiute da queste persone? Cose normali come un risveglio o una colazione sono come delle sinfonie alle orecchie di chi presta attenzione. Tutto è parte dello stesso suono e percio’ tutto resta indivisibile muovendosi all’unisono.
Un canto sentito e sofferto accompagna invece la figura di Sisa, come se venisse dalla pancia della Terra. Perché?
La storia di Sisa è particolarmente dura, una donna che non si è mai concessa di vivere in quanto tale, succube della decisione di mascherarsi da uomo per poter continuare a crescere sua figlia. Non c’entra tanto la transizione da donna a uomo quanto il fatto che sia stata costretta ad una vita di lavoro, soprusi e sofferenza. Che suono ha un cuore dimenticato, abbandonato e messo in catene? Il suono di un essere umano, un canto viscerale che viene dal basso, dalle radici che supplicano di essere nutrite e ricordate. È il suono del mondo in cui viviamo.
Oltre a Womanity, a cosa hai lavorato?
Mi sono concentrato soprattutto sulla mia carriera da solista, ma ho anche lavorato a alcune cose completamente diverse tra loro, dalle pubblicità ai film trailer. Un fatto curioso è che la mia voce sia stata usata nella campagna pubblicitaria della birra Peroni qui negli U.S.A. per la quale ho scritto e cantato il testo della canzone dello spot.Niente di speciale o esaltante, ma per lo meno sono riuscito a farmi ripagare di tutte le Peroni bevute in passato!
Scherzi a parte, è stato un progetto divertente, ma lontano da ciò che intendo veramente fare. Ho anche composto il trailer di un bellissimo documentario intitolato Scattering CJ, che racconta la storia vera di due genitori che per riprendersi dalla morte del figlio hanno organizzato una campagna sui social che ha cambiato le loro vite per sempre!
Persegui ancora il sogno di affermarti nel panorama musicale? In che direzione stai andando?
Assolutamente! Sto lavorando al mio progetto solista. Mi sono concentrato sulla produzione dei miei brani, ho anche fatto moltissimi concerti soprattuto a Los Angeles, ma adesso sto registrando il mio primo singolo, quindi sono molto impegnato in studio e non ho tanto tempo per gli show. Sto andando verso l’unica direzione possibile, la completa espressione della mia verità di essere umano.
Nel clima di diffidenza generale che si vive nei confronti dello straniero, com’è per te, italiano, provare ad agguantare il sogno americano?
Io non seguo nessun sogno americano. I sogni non hanno diverse nazionalità. Al massimo hanno tutti la stessa, poichè provengono tutti dallo stesso luogo interiore. Io sogno di essere libero di essere me stesso, colmo d’amore verso quest’ultimo e il prossimo, nel pieno della verità del mio spirito. Sogno di portare tutto l’amore che ho per la vita nel cuore di chi mi ascolta, senza eccezione. Siamo tutti sullo stesso pianeta e sogno di poterlo condividere con tutti i miei fratelli e sorelle nel mondo, così che insieme possiamo tutti prendercene cura. Come ci si prende cura del mondo? Prendendoci cura di noi stessi, del nostro corpo, della qualità dei nostri pensieri, del cibo che mangiamo, delle comunità in cui viviamo, delle nostre relazioni, del tipo di impatto che produciamo sull’ambiente circostante, che sia il pianeta o un’altra persona. Il mio sogno non è americano, e soprattutto non è mio. È il sogno di tutti i bambini del mondo e della nostra amata Terra.
Nonostante le difficoltà, gli Stati Uniti sono oramai la tua casa. Cosa hai visto cambiare, se è cambiato qualcosa?
Non posso parlare a nome di tutti gli Stati Uniti, vivo a Los Angeles che è una citta’ molto più liberale di altri luoghi nell’entroterra.
In generale è cambiato molto negli ultimi 5 anni. Per farla breve, posso metterla cosi. Molte coscienze si stanno svegliando su molti livelli. Questo risveglio porta un’ondata di compassione, che vedo sempre piu’ spesso nella vita di tutti i giorni. Gente che tutto a un tratto scopre un nuovo cammino interiore da percorrere, tecniche efficientissime di meditazione, yoga e in generale cura di se stessi.
Le persone piano piano stanno aprendosi all’idea che, in una democrazia, effettivamente la sovranità appartenga al popolo, e che anche nel mercato in generale noi compratori siamo la forza che motiva l’esistenza del mercato stesso, che può scegliere la direzione verso cui spostare questo mercato.
Ho detto APRENDOSI, non intendo dire che sia un concetto applicato né tantomeno compreso, specialmente in una società capitalistica come questa. Tuttavia in opposizione a questa “apertura” troviamo un’ondata di ignoranza e paura che si sparge a macchia d’olio nel resto del paese, troppo spesso tradotta in eventi tragici come tutti ormai sappiamo. Non voglio esprimere le mie idee politiche perché non è questo il luogo, ma sento che qualcosa sta per cambiare: nonso se è un nuovo governo a favore dello sviluppo dei suoi cittadini piuttosto che delle multinazionali o se è solo lo scioglimento dei ghiacci le cui acque porterebbero a ridefinire il mondo così come lo conosciamo. È solo una sensazione alla fine.
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Per chi fosse interessato alla visione, Womanity è disponibile free sulla piattaforma Rai Play al seguente link: https://www.raiplay.it/video/2019/03/Womanity-b607b3db-16cb-4782-aeae-74479db86cfc.html
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